John Limbert, l'uomo dalle cattive compagnie, è l'ennesima scelta sbagliata di Obama per quanto riguarda l'Iran. Il FOGLIO di oggi, 14/11/2009, ne pubblica una interessanate/preoccupante biografia, dal titolo " Il nuovo Iran Man di Obama dialogò con Khamenei già 30 anni fa ".
John Limbert
Roma. Il sequestro della Fondazione Alavi e del tesoro da 500 milioni di dollari costituito da terreni, moschee e un grattacielo sulla Quinta Strada a New York rappresenta l’ennesimo tassello nella contraddittoria politica iraniana di Barack Obama. E’ difficile, pur nell’ottica dell’alternanza tra il bastone e la carota, conciliare il discorso di Nowruz, quello della mano tesa, con la quasi violazione del Primo emendamento americano (la libertà di culto), i colloqui di Ginevra e la commessa di bombe antibunker per il Pentagono, le distanze dalla piazza iraniana e la conferma di sanzioni unilaterali che potrebbero presto farsi più dolorose. Mentre gli analisti prendono nota delle antinomie obamiane, la nomina del nuovo “Iran man” del dipartimento di stato rinfocola il dibattito. Laureato a Harvard, già ambasciatore in Mauritania, John Limbert è professore alla U.S. Naval Academy. Contrario a ogni ipotesi di attacco alle installazioni nucleari iraniane, Limbert sostiene da anni le ragioni del dialogo, sottolineando però che bisogna sapere con chi parlare. Sposato a un’iraniana, padre di due figli nati in Iran, Limbert descrive la sua esperienza persiana come una storia d’amore lunga quarant’anni. Ci approdò per la prima volta nel 1962 assieme ai genitori che lavoravano per l’Usaid. Tornò nel 1964 dopo aver imparato il farsi come volontario dei Peace Corps e ancora negli anni Settanta a Shiraz da ricercatore. “Pochi anni dopo fui assegnato all’ambasciata di Teheran, era l’agosto del 1979 – racconta – Una tempistica decisamente infausta”. Tre mesi dopo finisce tra gli ostaggi degli studenti della linea dell’imam. La sua quarta avventura persiana si concluderà dopo 444 giorni di prigionia. Di quei giorni conserva il ricordo vivido di un ragazzo che, invece di fargli ascoltare canzoni rivoluzionarie, preferiva ripiegare sulla poesia persiana o sulla demoniaca musica americana. Curiosamente nelle interviste non cita un tête à tête con Ali Khamenei. In un video che sta facendo furore sui blog iraniani e che la Guida Suprema ha messo sul suo sito, c’è la cronaca di un dialogo surreale con sorrisi di maniera tra il mullah rivoluzionario e il diplomatico americano, entrambi agli albori della carriera. Limbert si permette dello spirito: “Gli iraniani sono troppo ospitali nei confronti dei loro ospiti, noi insistiamo che ce ne dobbiamo andare e voi ci dite “no, no, dovete restare”. A trent’anni di distanza Limbert ammette di aver sottovalutato le implicazioni della Rivoluzione e di aver appreso nei giorni di cattività il valore della diplomazia. “Se non ci si parla finisce, che ci si ritrova nell’anarchia del ’79”. Autore del recente “Negotiating with Teheran: Wrestling the Ghosts of History”, Limbert dice di augurarsi molta pazienza da parte di Obama sul dossier iraniano. Misurato nelle sue valutazioni delle violenze post elettorali, definite “fatti sgradevoli”, quanto al futuro Limbert “non vede come un cambiamento a Teheran possa avere qualcosa a che vedere con l’esterno”. Quanto all’opposizione interna spera soltanto che, “in un modo o nell’altro, le autorità vadano incontro alle richieste della popolazione”. Le ambiguità della sua associazione Limbert “è un’ottima scelta” ha commentato Karim Sadjadpour, analista del Carnegie Endowment, unendosi al coro di estimatori che ne lodano la preparazione e la competenza linguistica. Ma il giudizio è tutt’altro che unanime. La principale accusa contro di lui è di frequentare cattive compagnie. Limbert è nel board del National Iranian American Council (Niac), un’associazione che gode di buone entrature a Capitol Hill, sospettata però di intrattenere relazioni altrettanto cordiali con influenti emissari della Repubblica islamica. Secondo il Washington Times, il Niac ha fatto di tutto per sabotare la nomina di Dennis Ross, ex consigliere clintoniano, al dipartimento di stato con una delega sul dossier iraniano. Ross era osteggiato perché fautore di una politica troppo muscolare nei confronti dell’Iran. Instancabile promotore dell’engagement e nemico delle sanzioni, Trita Parsi, capo del Niac, si è speso per aprire un canale tra Javad Zarif, ex ambasciatore iraniano all’Onu, e alcuni membri del Congresso. Dopo le elezioni, Parsi ha censurato per la prima volta le maniere forti del regime e invocato una “pausa tattica” dei negoziati. Ma non ha convinto i suoi detrattori. “Trita Parsi non fa parte del movimento”, ha detto il regista Mohsen Makhmalbaf, de facto portavoce all’estero dell’onda verde, persuaso che, attraverso la sua lobby, Parsi stia favorendo gli interessi del regime.
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