Riportiamo dal SECOLO XIX del 10/11/2009, l'articolo di Paolo Crecchi dal titolo " ' Ma in Israele ora c'è l'apartheid ' ".
Il presidente del tribunale di Betlemme, Hazem Idkeidek, accusa Israele di essere uno Stato di apartheid per via della barriera che ha eretto per proteggersi dagli attentati suicidi palestinesi.
Come scrive Paolo Crecchi, nel mondo ci sono parecchi muri, ma nessuno li denuncia. Solo la barriera difensiva israeliana viene vista come una grave violazione dei diritti umani e non ne comprendiamo il motivo. Grazie alla barriera gli attentati terroristici contro Israele sono diminuiti del 99%. Contrariamente a quanto credono molte persone, essa è di cemento solo per il 5% della sua lunghezza totale. E, per quanto riguarda le accuse di discriminazione nei confronti dei palestinesi, ricordiamo al presidente del tribunale di Betlemme che in Israele vivono anche arabi e che ad essi sono concessi gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Non crediamo che in Sudafrica fosse la stessa cosa ai tempi dell'apartheid.
Ecco l'articolo:
Non esiste un cartello del genere, in Israele
In Israele ci sono gli ebrei, la razza eletta, e poi i negri che siamo noi palestinesi. Ricordate il Sudafrica durante l'apartheid? Guardate laggiù».
In un assolato pomeriggio del giugno scorso, confidandosi con il Secolo XIX, il presidente del tribunale di Betlemme Hazem Idkeidek indicava il muro che divide in due la città del Natale dopo aver separato, per 700 chilometri, la Cisgiordania da Israele: famiglie, ma anche datori di lavoro e lavoratori, malati e ospedali, contadini e campi, pastori e greggi... L'ultimo rapporto dell'Onu conta in Palestina 630 barriere di sicurezza fra reticolati, buche e check-point; una rete stradale riservata esclusivamente agli israeliani; un'incredibile escalation di violenze sui palestinesi che rimangono impunite nel 90 per cento dei casi. Ci sono enclavi come Qalqilya completamente circondate dal muro e insediamenti come Har Homa, dove vivono trentamila coloni, che sono ulteriori recinti nel recinto. Gli osservatori più accorti hanno già fatto notare che l'integrità territoriale della Palesina è di fatto irrecuperabile, e con essa il raggiungimento di una soluzione politica alla tragedia del Medio Oriente. A meno che, beninteso, non si decida di buttar giù quello che dopo il crollo della cortina di ferro è diventato il Muro per antonomasia. Non l'unico, però.
In Europa. C'è un muro autorizzato dalla Ue ai confini tra Occidente e Terzo Mondo. Cinge le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, in territorio africano, e dovrebbe scoraggiare la fuga dagli stenti dei disperati sub-sahariani. Non è stato edificato in cemento ma in filo spinato elettrificato: i rinforzi, all'occasione, sono costituiti dai fucilieri di re Juan Carlos, che non si sono mai fatti scrupolo di sparare sui bivacchi dei clandestini.
Anche la multietnica Olanda ha isolato il porto traghetti di Hoek van Holland, per bloccare la circolazione degli immigrati, mentre in Irlanda non è mai realmente terminata la feroce contrapposizine tra cattolici e protestanti. A Belfast, lungo quella che ironicamente si chiama peace line, un cancello divide i quartieri orangisti di Shenkill Road dai Falls, rione «papista». Angoli della città completamente disabitati dopo essere stati teatro, per decenni, di sassaiole quotidiane.
Non è un muro vero e proprio, ma una ferita aperta in seno all'Europa, la divisione dell'isola di Cipro: con i turchi che dovranno prima o poi risolversi, se vorranno entrare nella Ue, ad abbandonare la zona nord che controllano dal 1974. Il referendum del 2004 sulla riunificazione di Cipro, che fa già parte dell'Unione europea, è stato peraltro approvato dai turco-ciprioti ma respinto, al 75%, dalla fazione greca.
In Asia. Corea del Nord e Corea del Sud sono separate da una linea di demarcazione che è stata tracciata nel 1977, sotto la supervisione degli Stati Uniti. Come a Berlino fino al 1989, i pochissimi varchi sono presidiati da guardie armate fino ai denti: e tuttavia i vopos orientali, anziché sparare sui fuggiaschi, preferiscono catturarli e internarli nei lager di regime dove torture e orrori sono all'ordine del giorno. In Corea del Nord sopravvive una feroce dittatura comunista aggravata dal culto della personalità nei confronti del leader, Kim Jong Il.
Il muro coreano si può definire geografico-ideologico. La barriera che oppone il Pakistan e l'Afghanistan, lunga 2400 chilometri e costituita da appezzamenti di terreno minato, dovrebbe invece arginare il terrorismo talebano. Stesso obiettivo ufficiale ha la muraglia che corre per quasi 4000 chilometri tra India e Bangladesh, Paesi che contrappongono la religione indù e musulmana ma anche antiche e più prosaiche incomprensioni: controllo delle fonti idriche, territori fertili, centri di affari più o meno leciti che prosperano l ungo il confine.
Ancora i terroristi islamici hanno ispirato il muro, decisamente più breve, eretto fra Thailandia e Malesia: il premier thailandese Surayaud Chulanont, arrivato al potere con il colpo di stato del 2006, ne ha voluto uno lungo appena ventisette chilometri ma reputato fondamentale per arginare l'influenza dei fondamentalisti malesi sulle agiate classi musulmane di Bangkok.
Di tipo bellico, se così si può definire, il muro che separa India e Pakistan: si chiama linea di controllo e divide la contesa regione del Kashmir per 3300 chilometri. Qui non c'entrano ideologie o religioni ma la solita, eterna ragione delle armi.
Il petrolio ha ispirato infine la costruzione del muro di frontiera fra Kuwait e Iraq, alto quattro metri e rinforzato da filo spinato elettrificato. Si tratta di un'eredità della prima guerra del golfo, quando Saddam occupò quella che lui considerava «la diciannovesima provincia irachena» e tutti gli altri, occidentali in prima fila, ritenevano essere il distributore più fornito del Medio Oriente.
In Africa. Se l'Europa difende le proprie frontiere meridionali senza andare troppo per il sottile (non solo la Spagna con Ceuta e Melilla, anche l'Italia ha eretto un muro d'acqua davanti alle sue coste) gli stessi paesi africani fanno abuso di muraglioni. A cominciare dal Marocco, dove fin dagli anni Ottanta sono state erette barriere per difendersi dale incursioni del Fronte Polisario, un movimento che rappresenta il popolo sahrawi. In questo caso le barriere sono otto, che proteggono anche le miniere di fosfati del Sahara occidentale e la preziosissima costa, bagnata da un mare assolutamente pescoso e punteggiata da giacimenti petroliferi. L'Onu ne ha bloccato lo sfruttamento fino a quando non si terrà il referendum per l'autodeterminazione dei sahrawi.
In Africa, per finire, il muro che imprigiona nello Zimbabwe i milioni di fuggiaschi dalla crisi economica e politica più devastante che il Paese ricordi. Il confinante Botswana ha lamentato a più riprese un'immigrazione incontrollata, e per non arrivare al conflitto armato è stata eretta una barriera elettrificata lungo il confine. Ufficialmente per impedire agli animali selvatici di passare da un territorio all'altro, e del resto non è che il governo dello Zimbabwe accordi una dignità troppo diversa ai propri cittadini.
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