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La Stampa Rassegna Stampa
11.11.2009 Poche olive in Cisgiordania quest'anno per via anche della siccità
Ma per Paola Caridi la colpa è tutta di Israele

Testata: La Stampa
Data: 11 novembre 2009
Pagina: 15
Autore: Paola Caridi
Titolo: «Cisgiordania in guerra per una manciata di olive»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/11/2009, a pag. 15, l'articolo di Paola Caridi dal titolo " Cisgiordania in guerra per una manciata di olive ".

Paola Caridi descrive le difficoltà dei coltivatori di olive in Cisgiordania. Come si può leggere nelle prime righe dell'articolo, i problemi nascono soprattutto dalla siccità di quest'anno. Meno pioggia, meno olive, meno raccolti. Normale.
Ma, secondo Caridi, il vero motivo della povertà dei contadini cisgiordani deriva dalle violenze dei coloni e dagli assurdi controlli israeliani.
In particolare, Caridi si scaglia contro la barriera difensiva (lei la definisce "muro"), vero motivo di disagio per i contadini arabi. Se esistono check point e la barriera protettiva, il motivo va ricercato nella violenza del terrorismo palestinese. La barriera è stata creata con lo scopo di difendere gli israeliani, non con quello di vessare i contadini. Quando ci sarà un accordo di pace e i confini saranno determinati, essa non sarà più necessaria e non lo saranno nemmeno i check point.
Per quanto riguarda le violenze dei coloni, i contadini non sono indifesi. Infatti, come scrive Paola Caridi ("
Quest’anno, poi, ha funzionato di più il «coordinamento» tra Anp ed esercito israeliano, che ha talvolta «protetto i contadini palestinesi» nelle aree delicate"), anche l'esercito israeliano è impegnato nella difesa dei palestinesi. Caridi riporta solo le dichiarazioni dei coloni più esaltati e della parte araba. Nell'articolo non c'è spazio per le fonti  del governo israeliano, impegnato a smantellare gli insediamenti illegali e a garantire la presenza di soldati dell'esercito perchè difendano i contadini arabi. Sarebbe stato corretto riportarlo, ma da Paola Caridi si è guardata bene dal farlo . Ecco l'articolo:

 Paola Caridi

Il piccolo oliveto attorno alla casa se lo sono lasciato per ultimo. Cisgiordania settentrionale, pochi chilometri prima di arrivare a Nablus, lungo la strada che sale su fino alla provincia di Jenin, il cuore dell’agricoltura palestinese. È lì, tra Nablus e Jenin, dicono i palestinesi, che si produce l’olio di oliva più raffinato. Muniti di una scala di legno e di un tappeto fitto di iuta, l’anziana coppia di palestinesi cerca di racimolare nel suo piccolo oliveto quanto più è possibile dalla peggiore raccolta che la Cisgiordania ricordi da quarant’anni.
Se lo aspettavano. Un anno buono, un anno cattivo, dice la tradizione. Non c’è stata praticamente pioggia, lo scorso inverno. Un disastro per il più importante settore dell’agricoltura palestinese. Cinquemila tonnellate di olive quest’anno, un terzo di quelle raccolte nel 2008. Ma una cosa ha portato di positivo lo «shalatoun», l’anno cattivo. Gli scontri tra i contadini palestinesi e i coloni israeliani sono diminuiti, secondo l’Onu. Raccolta corta, e così «si è ridotta la vulnerabilità dovuta alla violenza dei coloni e alle restrizioni di accesso» ai campi, dice l’ufficio di Gerusalemme delle Nazioni Unite.
Quest’anno, poi, ha funzionato di più il «coordinamento» tra Anp ed esercito israeliano, che ha talvolta «protetto i contadini palestinesi» nelle aree delicate, quelle vicine alle colonie più radicali concentrate attorno a Nablus. Ma la violenza c’è stata lo stesso. Il 29 ottobre, nelle campagne attorno a Qaryut, i coloni hanno mandato sei palestinesi all’ospedale. Non dovevano andare a raccogliere le olive, hanno detto i coloni, perché mettevano in pericolo la sicurezza degli insediamenti.
Per cercare di prevenire questi soprusi, a raccogliere le olive quest’anno c’era anche il primo ministro dell’Autorità Nazionale di Ramallah, Salam Fayyad, originario di Nablus. Assieme a lui il nuovo console generale americano a Gerusalemme, Daniel Rubinstein. «Il simbolismo della raccolta delle olive per l’identità dei palestinesi è chiaro - ha detto Rubinstein -. E io sono qui per mostrare il sostegno americano per il popolo palestinese».
Per i coloni israeliani la Terra promessa arriva sino al Giordano, è terra biblica, predestinata. «Ci viene impedito di realizzare il nostro destino, non solo di prendere possesso del cuore della nostra patria, ma anche di raccoglierne i frutti», scrive un colono-blogger. E gli fa eco il direttore dell’ufficio di coordinamento della Samaria, che raccoglie una trentina degli insediamenti più radicali. «Solo gli ebrei hanno diritto sulla Cisgiordania - ha detto David Ha’ivri -. Israele ha bisogno di annettere e controllare tutta l’area in suo possesso oggi».
Per i palestinesi è questione d’identità. Come cantano i poeti nazionali. «Nell’orizzonte lontano della mia parola / ho la luna, l’abbondanza degli uccelli / e un immortale albero d’olivo», scriveva Mahmoud Darwish. Anche Hajj Youssef, classe 1923, ce l’aveva, il suo albero di olivo. «Mi piaceva riposare lì sotto», dice. Ora, però, quell’albero non c’è più. È stato sradicato, com’è successo a migliaia di alberi negli scorsi otto anni, per far posto al Muro. Hajj Youssef, colorito bruciato dal sole, vestito nella tunica verde della festa, vive ad Anin, vicino a Jenin. La Linea Verde, quella dell’armistizio del 1949, corre sopra il suo villaggio. La barriera di separazione si inoltra invece dentro la Cisgiordania, tra le colonie (Hinnanit, Shaqed, Rehan) e i villaggi palestinesi.
«Il mio raccolto è stato pari a zero», si lamenta Hajj Youssef. Per andare al campo, Hajj Youssef deve passare un cancello, che le autorità israeliane aprono solo due volte alla settimana, dalle 8 alle 14. Impossibile curare l’oliveto. Hajj Youssef fa parte di una rete di commercio equo, prodotti agricoli con un alto standard di qualità, destinati all’export. Dagli Usa all’Italia, passando per Gran Bretagna e Austria. L’idea seguita da Canaan, un network di Jenin che raccoglie 1200 contadini riuniti in 34 cooperative, è la stessa di altri progetti in corso in Cisgiordania. Se gli olivi son di meno, se non si possono importare pesticidi, allora l’unica ricetta possibile è alta qualità e prodotti biologici. Di necessità virtù, insomma. In attesa che la politica faccia il resto.

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