Sull' ESPRESSO n°45, del 12 novembre 2009, a pag. 120, l'intervista a Daniel Barenboim di Wlodeck Goldkorn, che si fa notare fin dal titolo " Mito Barenboim " per l'assoluta mancanza di equilibrio. Pur tralasciando tutta la retorica buonista, una moneta sempre facile da spendere, della possibile convivenza tra israeliani e arabi (consigliamo a Barenboim una gita in Yemen, così si rende conto di come si realizza la "convivenza"), tutto il servizio è una lode sperticata al Maestro. Che a noi è francamente antipatico, per diversi motivi:
1) cominciò in Israele, quando suonò Wagner in un concerto senza che fosse in cartellone. Sapeva che in sala c'erano diversi sopravvissuti alla Shoà, ma non gliene importò nulla, anzi, venne da pensare che l'avvese fatto apposta, visto che poi dichiarò che era ora di smetterla con il bando a Wagner, fregandosene che quella musica ricordasse i campi sterminio, dove veniva suonata in omaggio alla "grande cultura tedesca ". Ovviamente non stiamo discutendo qui il valore della musica wagneriana, ma l'opportunità di farlo davanti a dei sopravvissuti. Ecco la grande sensibilità del Maestro.
2) fra due giorni Barenboim suonerà a Berlino per ricordare la caduta del Muro, e anchè lì dirigerà il " Lohengrin ", forse era meglio se si limitava al Mosè e Aronne di Schonberg, più adatto all'occasione.
3) grande amico di uno dei più accaniti odiatori di Israele, Edward Said, fonda con lui un'orchestra formata da ragazzi israeliani e arabi, una bella iniziativa se non venisse brandita come una clava per condannare ogni volta Israele che " non ha ancora fatto la pace con i palestinesi", come se il paragone con un orchestra avesse un senso
Giusto che l'intervista gliel'abbia fatta Wlodek Goldkorn, insieme a Gad Lerner e Moni Ovadia fanno veramente un bel trio.
Ci stupiamo che Barenboim non abbia ancora ricevuto il Premio Nobel. Dopo Dario Fo, Saramago e altri grandi "amici" di Israele, non darlo anche a lui sarebbe ingiusto. Ecco l'intervista, nello stile Gianni Minà:
nella terza immagine. Edwaed Said fotografato durante la prima intifada mentre insegnava a suo figlio come si lanciano le pietre contro i soldati israeliani.
nelle precedenti, Richard Wagner, Daniel Barenboim
Daniel Barenboim, maglietta bianco-beige a strisce orizzontali, pantaloni neri, mocassini comodi, seduto sull'alto sgabello nella buca dell'orchestra, dirige la prova di 'Lohengrin' di Richard Wagner. È l'attimo sublime di un pomeriggio alla Staatsoper di Berlino. Il maestro dà alla musica di Wagner un timbro tenero che rivela la profonda ambiguità e una certa fragilità del compositore tedesco. E anche l'ambientazione suscita grande emozione: un ebreo di origini russe nato in Argentina, con parenti morti nella Shoah, dirige un'opera che racconta un'antica saga teutonica scritta da un compositore fatto simbolo dai nazisti, in una sala frequentata dai seguaci e collaboratori di Hitler. Qui, nel 1941, dopo un bombardamento degli alleati, e nel tripudio delle camicie brune, Wilhelm Furtwängler eseguiva 'Die Meistersinger von Nürnberg'. Qui, finita la guerra si celebravano i fasti di un'altra dittatura, quella comunista. E a ben guardare, il delicato e fragile 'Lohengrin' di Barenboim, suonato e cantato a vent'anni dalla caduta del Muro, al centro della capitale di una Germania pacifica e democratica e dove a fianco al Parlamento sorge il monumento alle vittime della Shoah (perché nessuno dimentichi) segna la ritrovata normalità, la raggiunta armonia tra musica, storia, politica. Ma questa normalità, manca altrove: per esempio nel Medio Oriente. E per questa normalità Barenboim si batte da anni. Ha fondato, nel 1999, assieme al grande intellettuale palestinese Edward Said, la East Western Divan Orchestra: ragazzi israeliani e arabi che suonano insieme. Ora, la Fondazione Veronesi a Milano lo premia per questa attività. A Milano, diventata una delle sue città, Barenboim tornerà il 7 dicembre per dirigere 'Carmen', con la regia di Emma Dante. E prima di iniziare questa intervista tiene a sottolineare quanta soddisfazione gli dia il lavoro alla Scala: "Un'ottima atmosfera, un pubblico preparato, gli orchestrali di altissimo livello", e quanto apprezzi l'attività della Fondazione Veronesi, "perché educa la gente ad amare la scienza e a impegnarsi per la pace".
Maestro Barenboim. In che modo la cultura e l'arte possono contribuire alla pace?
"Dipende dal ruolo che siamo disposti a dare alla cultura e all'arte. L'arte, la musica, in particolare, ne parlo perché sono un musicista, hanno un potere immenso. Purtroppo, spesso releghiamo l'arte e la cultura a un ruolo secondario, sbagliando. L'arte è vista come un mezzo per rimuovere i problemi. Hai avuto una giornata difficile? Sei stato dal dentista? Torni a casa stanco? Metti un disco con i 'Notturni' di Chopin".
E invece l'arte può trasformare il mondo?
"Basta pensare alla Nona di Beethoven. Il testo, scritto da Schiller, dice: 'Alle Menschen werden Brüder'; tutti gli uomini saranno fratelli. È il principio dell'esistenza umana: siamo tutti uguali. Anche in un'orchestra è così. Il potere, la voce principale passa a turno da un musicista all'altro. Suona l'oboe, e tutti lo seguono, poi gli subentrano i contrabbassi e tutti li ascoltano. La musica può insegnarci come vivere. La musica deve essere sovversiva, se vuole valere. Quando lei ascolta Mozart e sente una bellissima linea dell'oboe o Susanna che canta ne 'Le nozze di Figaro', lei assiste a un'attività sovversiva".
Perché sovversiva?
"Perché ci indica che un altro mondo è possibile".
Ha scritto che la musica assomiglia alla politica: è un'idea, un'utopia che diventa realtà...
"La musica è un'espressione fisica dell'anima. Quando parliamo dell'anima, pensiamo di solito a sentimenti, emozioni, contemplazione. Invece la musica trasforma l'anima in una forza attiva".
Eppure, tanti carnefici hanno adorato la musica. Karadzic dice di amare Beethoven...
"La colpa non è della musica, ma degli uomini che non sono adeguati".
Perché componiamo la musica?
"Una volta hanno chiesto a Horowitz: Maestro perché suona le ottave con la mano sinistra così veloce e così forte? Ha risposto: perché posso. Sarebbe stupido e demagogico se dicessi: io non posso vivere senza la musica. L'uomo, anche se gli tolgono le cose a cui più tiene, continua a vivere, a sognare e ad amare. Però a me la musica dà tutto: il materiale per il pensiero; la soddisfazione emotiva; la possibilità di sentire le cose che non si possono sentire nel mondo reale, ad esempio la morte. Ogni suono che diventa silenzio è una piccola morte. Con la musica abbiamo la possibilità di vivere esperienze altrimenti impensabili".
La musica, al contrario delle parole, è un linguaggio astratto. Un suono non ha bisogno di essere tradotto. Questo ci aiuta a condividerla con gli altri?
"La vicenda è molto più semplice. La musica penetra i nostri corpi nel senso più primitivo e primordiale. L'orecchio è un organo sempre aperto. Ed è questa fisicità che dà alla musica tutta la sua terribile forza".
Sta dicendo che l'orchestra è una scuola d'ascolto?
"Sì. E nessuno può prevaricare. Il primo clarinetto quando suona la frase principale dà il via agli altri che intanto lo ascoltano. Il senso della musica è diventare uno".
È il principio divino. È l'unità dell'universo che si racchiude nella lettera Alef, la prima dell'alfabeto, e che rimanda a Dio e alla creazione.
"Per me è così".
E allora qual è il ruolo del direttore?
"Il dovere del direttore è dare all'orchestra un polmone collettivo. Arrivare a una situazione, mentre si suona, in cui tutti respirano la stessa musica e quindi pensano esattamente la stessa cosa".
Lei è l'unica persona al mondo ad avere la doppia cittadinanza: l'israeliana e la palestinese. Che tipo di responsabilità sente?
"La responsabilità di dire sia agli israeliani che ai palestinesi che non possono ignorarsi a vicenda".
La situazione peggiora. Di chi è la colpa?
"Pensi a una popolazione, i palestinesi, che era maggioranza nel Paese e oggi è minoranza in Israele. Ma il vero problema è che per nessuno la pace è la priorità. Israele pensa solo alla sicurezza, i palestinesi solo all'ingiustizia che hanno subito. Oggi il mondo intero sa qual è la soluzione: i confini del 1967, Gerusalemme capitale di Israele e di Palestina, soluzione della questione dei rifugiati. Sono tre elementi sufficienti per fare la pace. Ma sia gli israeliani che i palestinesi non la vogliono: pensano che il tempo lavori a loro favore. Non si rendono conto che il destino dei due popoli è inestricabilmente legato. È una situazione in cui si vince insieme o si perde insieme. E per questo che io spero in una soluzione imposta dall'esterno. Da questo punto di vista ho trovato bello il discorso di Obama al Cairo, ma non basta. Gli americani devono capire di dover parlare e di dover costringere gli israeliani a parlare con chiunque venga scelto in elezioni democratiche tra i palestinesi. Bisogna che gli americani e gli israeliani trattino i palestinesi da esseri umani adulti: che hanno necessità, diritti e responsabilità uguali agli altri. Nessuno può decidere chi e come debba rappresentare i palestinesi".
Del Muro che divide Israele dai territori cosa pensa?
"È la peggiore cosa che potevano fare. Gli israeliani e i palestinesi possono vivere insieme oppure, gli uni accanto agli altri, ma mai dando le spalle gli uni agli altri".
La East Western Divan Orchestra è uno Stato binazionale in nuce?
"È un modello di società alternativa. Ne ho la prova. Nel gennaio, per festeggiare il decimo anniversario della nostra orchestra, avevamo in programma una tournée in varie città del mondo. Eravamo in piena guerra di Gaza. Ho detto ai ragazzi: se qualcuno non se la sente di suonare con gli altri, io lo capirò. Ma chiedo di dirmelo ora, e non cinque minuti prima di un concerto; ad esempio a Mosca. Ero sicuro che i palestinesi e gli israeliani avrebbero discusso separatamente. E invece i ragazzi si sono messi a parlare insieme. E tutti sono venuti in tournée".
David Grossman, che è stato ospite dell'orchestra, racconta come non riusciva a distinguere i ragazzi palestinesi da quelli israeliani...
"Infatti. Si può vivere insieme".
Lei è andato a vivere con i genitori in Israele nel 1952, aveva dieci anni. Perché?
"Perché i miei volevano darmi un'ottima educazione musicale: facevo già i concerti. E per non farmi sentire diverso dagli altri: come bambino musicista e come ebreo".
Oggi, lei è a casa in mezzo mondo, parla svariate lingue. Si sente israeliano o ebreo diasporico?
"Nel nostro secolo si deve avere più identità".
Tra le sue città simbolo c'è Weimar, dov'è nata la sua orchestra, Gerusalemme, ma anche Siviglia, capitale di un'Andalusia in cui gli arabi e gli ebrei vivevano in armonia...
"Gerusalemme con le sue tre religioni universali, dal punto di vista simbolico, è proprietà dell'intera umanità. Andalusia invece è il luogo di una memoria preziosa, da usare per costruire il futuro".
E Siviglia è il luogo in cui si svolge la trama di 'Carmen'. È un'opera politica, a suo modo. Carmen sceglie i suoi partner, è anarchica non si sottomette ad alcuna legge, e lo teorizza ne 'La Habanera'.
"È una donna libera. È il contrario della donna oggetto. È tragica, seduttiva, anarchica. È un essere umano ricchissimo. Emma Dante ha fatto un lavoro meraviglioso. Del resto Carmen è un'opera del Sud. La Habanera è il simbolo di un triangolo: è una musica che dall'Africa arriva ai Caraibi, da lì approda a Parigi, dove viene reinterpretata da uno che oggi definiremmo 'colonialista culturale europeo'".
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