" Un'alternativa allo Stato palestinese e allo Stato unico binazionale ", di Mordechai Kedar
Traduzione adattamento di Antonella Donzelli e Avi Kretzo
Alcuni giorni fa è stato pubblicato che Abu Mazen minacciava di dimettersi perché i negoziati di pace si sono arenati. Hillary Clinton, segretario di stato americano, è arrivata la settimana scorsa per evitare queste dimissioni e riavviare le trattative. Io - permettetemi – avrei consigliato alla signora Clinton, e anche a noi stessi, di lasciare che Abu Mazen si licenzi, perché è inutile rianimare quel cadavere detto “Autorità Palestinese”. Al Fatah l’ha paralizzato, Hamas l’ha fatto a pezzi e Abu Mazen non riesce a muovere foglia se Israele non acconsente. Nei Paesi arabi le elezioni non legittimano i capi dei Governi, tanto più che Hamas minaccia di punire con la morte chi si recherà alle urne. Alla faccia della democrazia!
Da quindici lunghi anni Israele, l’Unione Europea, L’Onu e gli Stati Uniti tentano invano di insufflare lo spirito di uno stato autentico, reale, d’infondere l’anima in quel Golem (creatura artificiale forte, ma priva di cervello, n.d.t.) chiamato Autorità Palestinese. Tuttavia la situazione continua a precipitare, perché gli islamici fantasticano di purificare Al-Quds (Gerusalemme, in arabo, n.d.t.) dalla “profanazione” ebraica, trascinando in questa fantasticheria anche re Abdallah di Giordania e il presidente egiziano Mubarak, che non possono permettersi di restare in disparte senza apparire collaborazionisti dei Sionisti.
I mass media arabi, che dettano l‘agenda politica nei loro Paesi, caldeggiano sempre più il ritorno di tutti i profughi (di terza, quarta e successive generazioni, n.d.t.) alle case dei loro avi, a Haifa, Acri e Giaffa e presentano l’estirpazione degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (Cisgiordania, n.d.t.) come un fatto imminente.
C’è troppo odore di sangue nell’aria del Medio Oriente e il rapporto Goldstone (sui presunti crimini di guerra israeliani durante l’operazione Piombo Fuso, n.d.t.) stimola sempre più le ghiandole salivari degli squali. Israele guarda con preoccupazione, e giustamente, in direzione dell’Iran, mentre sotto il suo naso, il movimento islamico intensifica i propri sforzi per destabilizzare lo stato ebraico incendiando l’intero Medio Oriente con la fiamma verde dell’Islam.
Se Israele vuole smorzare la tensione nell’area e rispedire al fantasioso mittente (i nemici interni ed esterni) i suoi folli progetti, deve proporre un piano efficace che risolva il conflitto con gli Arabi che abitano all’interno del suo territorio. In mancanza di un programma proprio, Israele suscita soluzioni esterne. Sembra strano, ma una pace fondata sul benessere economico lascia indifferenti gli Arabi: infatti Arafat ha scatenato la seconda Intifada proprio quando la situazione economica dei Palestinesi era fiorente (e il PIL in crescita, n.d.t.).
È inutile fondare uno stato palestinese barcollante, che non riuscirà a reggersi in piedi, come tanti altri Paesi arabi nati dall’allucinazione nazionalista importata dall’Europa. Sulle rovine dell’Autorità Palestinese, che non è mai stato un vero focolare nazionale, occorre invece costituire una “Unione degli Emirati Palestinesi”. Così ogni città palestinese in Giudea e Samaria sarà una specie d’emirato o città stato basati sulle tribù o i clan locali. Israele invece conserverà e controllerà le campagne e i villaggi cisgiordani poco popolati, evitando in questo modo che le colline (strategiche, n.d.t.) della Giudea e della Samaria diventino le “Alture degli Hezbollah”. La creazione di questi “emirati” non risolverà il problema della legittimazione dello Stato d’Israele agli occhi degli Arabi e dei mussulmani, tuttavia, placando la tensione nell’area tra il Mediterraneo e il fiume Giordano si allontanerà il fiammifero dalla polveriera chiamata Medio Oriente e le pressioni su Israele da parte degli Stati Uniti e dell’Europa si attenueranno.
La maggior parte degli stati Arabi e islamici è arretrata, soprattutto a causa dei conflitti infiniti tra le tribù, le fazioni, le etnie e i vari popoli che li compongono. La soluzione basata sui clan tribali, che si ottiene smantellando gli stati instabili e trasformandoli in nuclei sociali omogenei, è l’unica via d’uscita anche per Paesi come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iraq, il Sudan, lo Yemen e ogni stato arabo fallimentare creato dal colonialismo, che il mondo tenta senza giustificazione e senza successo di mantenere in vita, ammesso che sia mai vissuto veramente.
Infatti, Stati di stampo tribale come quelli del Golfo Persico sono gli unici capaci di esistere e funzionare legittimamente nella realtà araba e islamica. La prova recente di ciò sono le milizie degli emirati, sorte nella regione di Al Nabar, nell’ovest dell’Iraq (un territorio doppio rispetto a quello d’Israele), che sono riuscite ad eliminare nelle loro aree il terrorismo di Al-Qaida, dopo che gli eserciti degli Stati Uniti e dell’Iraq hanno fallito in questa missione.
Quante migliaia di soldati americani ed europei dovranno ancora morire sulle terre dell’Islam, finché ci si renderà conto che in quelle realtà il sistema tribale tradizionale è più forte ed efficace d’ogni modello politico moderno (che funziona solo in Occidente, n.d.t.)?
Per questo, le dimissioni di Abu Mazen permetteranno a Israele di realizzare il sistema degli emirati anche nelle città della Cisgiordania. Quindi occorre incoraggiarlo a rassegnare le dimissioni a quello stesso Abu Mazen che si è autonominato presidente dell’Autorità Palestinese, anche dopo che il suo mandato era scaduto, dieci mesi fa. Il capo tribù, invece, non ha bisogno di un mandato con una scadenza; non necessita di appoggio esterno né di elezioni truccate, perché possiede una legittimazione sociale più forte di ogni nomina ed elezione.
Perciò, prima di creare uno stato palestinese, conviene consultarsi con i capi dei clan Ja’bri, Abu-Snena e Natshe a Hebron; Al-Masri, Kan’an e Toukan a Nablus, per sapere cosa realmente hanno in animo. Credetemi: essi non vogliono che Abu Mazen, nativo di Zfat (Safed, n.d.t.), li governi, esattamente come non sono disposti che Marwan Barghouti (nativo di Ramallah) dica loro che cosa devono o non devono fare. Chi sono mai, gli uni, per gli altri?
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Una breve aggiunta del traduttore: uomini vicini a Marwan Barghouti sostengono la possibilità che nelle prossime elezioni egli si candidi alla presidenza dell’Autorità Palestinese, nel caso (remoto) che Abu Mazen non lo faccia. Attualmente Barghouti fa campagna elettorale dietro le sbarre di una prigione israeliana, dove sta scontando cinque ergastoli per terrorismo. Ma tutto è possibile in Medio Oriente.