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Angelo Pezzana
Israele/Analisi
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Al tavolo palestinese Barack gioca con le carte truccate 04/11/2009

 Barack Obama, Benjamin Netanyahu, Abu Mazen

Sui rapporti Israele-Usa dell’era obamiana aleggia il fantasma di un piano che il nuovo presidente starebbe per annunciare, grazie al quale il conflitto israelo-palestinese dovrebbe trovare finalmente la strada giusta per giungere al termine. Se ne parla, ma il fatto che non ne sia trapelata nessuna indiscrezione sul contenuto rafforza l’ipotesi che, se c’è, la sua cottura non è ancora arrivata al punto di ebollizione . Viene spesso evocato, ma la parola d’ordine è ancora e sempre quella che si richiama al processo di pace, esattamente come è avvenuto con Bush e Clinton. E con gli stessi risultati. Arafat sostituito da Abu Mazen, Sharon e Ehud Barak da Bibi Netanyhau, qualche incontro alla Casa Bianca con il nuovo inquilino, le solite strette di mano per i fotografi, la buona volontà riconfermata nelle comuni promesse, e poi tutti a casa. Con i problemi di sempre, aggravati dal fatto che l’interlocutore palestinese non si è ancora accorto che il potere di Hamas a Gaza gli sta sottraendo, giorno dopo giorno, quella autorevolezza che forse Abu Mazen non ha mai avuto. Israele, che pure riconferma la soluzione dei due stati, si trova nell’imbarazzante situazione di discutere di un progetto pur sapendo che al tavolo delle trattative siede qualcuno che non è in grado di fornire la merce della quale si discute. L’imbroglio palestinese è tale, che è impossibile capire quale sarà la relazione futura fra l’entità Gaza e i territori governati dall’Anp, essendo chiara la decisione di Hamas di non voler arrivare ad alcun accordo in vista delle prossime elezioni di gennaio. In mezzo a questa confusione, il solo progetto serio in discussione è quello presentato dal premier dell’Anp Salam Fayyad, il quale ha annunciato che intende auto-proclamare lo stato palestinese entro due anni, impiegando questo tempo nella realizzazione delle infrastrutture. Istituzioni pubbliche, banche, scuole, strade, tribunali, esercito, industrie, ecc., che oggi mancano, soprattutto a causa della corruzione che ha deviato i finanziamenti che pure erano arrivati a questo fine dagli aiuti internazionali. Fare, in sostanza, ciò che fecero gli israeliani prima della proclamazione dello Stato ebraico nel 1948, quando l’unico atto che mancava era il riconoscimento internazionale. L’impresa presenta enormi difficoltà, vista l’arretratezza della società palestinese, abituata da sempre ad un regime autoritario, privo di quelle minime regole democratiche, senza le quali nessuno stato moderno può essere costruito.

Forse Barack Obama, dopo un anno speso a declamare quelle buone intenzioni che avrebbero dovuto risolvere il conflitto, e magari non avendo nulla di nuovo da proporre, si sta accorgendo che il rapporto con il mondo arabo musulmano è molto più complicato di quanto pensava, e che la questione palestinese è soltanto un piccolo ingranaggio in un sistema di relazioni tra stati democratici e stati dittatoriali. E che non basta porgere la mano accompagnata da un sorriso per ottenere dei risultati soddisfacenti. Il discorso all’università del Cairo aveva lusingato i suoi interlocutori, ma dopo solo alcuni mesi il bilancio mediorientale è drammaticamente negativo. In Iraq nessun miglioramento, con il terrorismo sempre più aggressivo; la Siria ha mantenuto stretti i legami con Hamas e Hezbollah, incrementando anche quelli con Iran e Turchia, ormai alleati in funzione anti-occidentale, mentre il Libano non è ancora riuscito a darsi un governo. In Egitto, la successione tra Mubarak e il figlio Gamal è tutt’altro che automatica, e sul paese domina l’incognita della forte presenza dei Fratelli Musulmani.

Che Obama si stia accorgendo che qualcosa nel suo piano delle buone intenzioni non funziona, l’abbiamo verificato nelle dichiarazioni di Hillary Clinton all’inizio del tour mediorientale, quando ha riconosciuto che il governo israeliano collabora con l’amministrazione americana al proseguimento delle iniziative di pace, mentre i palestinesi sono capaci soltanto e sempre di dire no. Forse si rende conto che dare sempre la colpa a Israele per i fallimenti generati esclusivamente dal rifiuto arabo, è alla base dell’instabilità della regione, e che è giunto il tempo di richiamare alle loro reponsabilità despoti e tiranni, invece di lisciargli il pelo. Sono loro che devono andare a lezione di democrazia da Israele. Se Obama l’ha capito, si affretti a metterlo in pratica, i primi a trarne benificio saranno i popoli musulmani.


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