I palestinesi, diceva Abba Eban, non perdono mai un'occasione di perdere un'occasione. Un'occasione di pace, naturalmente. Dai tentativi inglesi degli anni Trenta alla spartizione dell'Onu del '47, da Camp David a Taba fino alle discussioni fra Olmert e Abu Mazen di un anno fa, al momento c'è sempre stato un blocco, uno stop, un rifiuto. Potete pensare, come credo io, che in realtà i palestinesi non vogliano una pace di compromesso, ma solo la vittoria definitiva, cioè la distruzione dello Stato di Israele. Oppure, se siete indulgenti e un po' paternalisti, siete liberi di credere che sono incapace di muoversi in un contesto negoziale, che non sanno fare politica e regolarmente sbagliano. Non importa. Il risultato è quello. Probabilmente in futuro vedremo questi giorni come la prosecuzione della serie delle occasioni perdute e aggiungeremo Obama a Clinton nel numero dei presidenti che ci hanno provato e cui i palestinesi hanno detto di no. Pensate, quest'anno per la prima volta dai tempi di Carter si sono trovati un presidente americano chiaramente amico, che nutre simpatia personale per la loro causa e -molto più importante- che aveva creduto di capire che la questione palestinese potesse essere la chiave per risolvere a modo suo il conflitto fra Occidente e Islam. Non discuto qui se aveva ragione o torto (io credo proprio che avesse torto marcio, ma non insisto). Quel che conta è che nella partita di calcio avevano amico l'arbitro: un vantaggio incomparabile. Di più, si sono trovati in un momento in cui l'Onu e le organizzazioni sono dominati da una maggioranza terzomondista; in cui l'Europa, alle prese con i suoi immigrati, ritiene di non far valere la sua civiltà e le sue regole, ma si piega sempre più verso Eurabia; in cui a Israele viene a mancare anche un tradizionale e importantissimo alleato come la Turchia; in cui l'Irak, l'Afganistan e il Libano mostrano la difficoltà di condurre la guerra asimmetrica con le armi di oggi; in cui infine l'atomica iraniana produce un allarme chiaro e immediato in Israele, tale da consigliare di cercare alleati e compromessi pagando anche prezzi salati. Insomma, i palestinesi si trovano da un anno in una posizione strategica fortissima, come non ne hanno mai conosciuta. Il buon senso indurrebbe a monetizzare questo vantaggio, con una posizione negoziale flessibile che puntasse ad ottenere la miglior sistemazione finale possibile. Avrebbero dovuto chiedere trattative subito, come voleva Obama. Trattare con gli israeliani avendo Obama a capotavola sarebbe stato molto conveniente. E invece no. Prima Abu Mazen ha teorizzato che non doveva fare niente, bastava aspettare che gli americani gli servissero il risultato a tavola. Si è quindi incartato sull'idea del "blocco delle colonie", cioè la sospensione dell'attività edilizia negli insediamenti, facendone quello che non era mai stata in vent'anni di trattative, una precondizione a ogni discorso, non un risultato da ottenere trattando. Poi, quando ha accettato di fare un paio di mosse sollecitate con forza dall'amministrazione americana, come incontrare di persona Obama e Netanyahu o non spingere su quel rapporto Goldstone che condannava l'operazione israeliana a Gaza (appoggiata nascostamente ma non troppo dalla stessa autorità palestinese), l'ha fatto così male, di malavoglia e senza dire che si poteva trattare di un inizio della pace, che nessuno l'ha seguito e anzi c'è stata una sorta di sollevazione interna appoggiata e sostenuta da Hamas. Nel frattempo il governo Netanyahu era capace di fare politica, di discutere, di fare limitate concessioni, insomma di giocare il gioco delle trattative. Il risultato è questo, che i palestinesi ora sono nell'angolo. Potrebbero uscirne, ma stanno facendo il possibile per chiudersi ancora di più in una situazione senza uscite, montando una macchina propagandistica intorno alla questione della moschea sul monte del Tempio e in genere su Gerusalemme e preparando nuovi scontri e magari nuovi attentati. Insomma, mai perdere un'occasione di trasformare una possibile occasione negoziale in un argomento di scontro propagandistico e magari fisico. Aiutati, come sempre, dalla macchina propagandistica di Eurabia e dei loro cuginetti israelarabi di Haaretz. Ma la propaganda non ha mai risolto i problemi, semmai li ha complicati. Sarà che non ci sanno fare, potete pensare voi. O, come penso io, che vogliono tutta la "Palestina", "dal fiume al mare", niente di meno. E che sono disposti a massacrarsi (e a massacrare) per altri cent'anni, nella speranza di riuscirci. E che dunque la pace, la sicurezza dei confini, la stabilità, non è il loro obiettivo, ma il loro incubo peggiore. Lo capiranno mai i "pacifisti" eurarabi ed arabamericani?
Ugo Volli |