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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Martin Buber, Sentieri in utopia sulla comunità 02/11/2009

Sentieri in utopia sulla comunità          Martin Buber
a cura di Donatella Di Cesare
Marietti                                                         Euro 18

Quando il vecchio professore viennese scrive l’ultima frase del suo libro è già cominciata la primavera. La guerra, che per sei lunghissimi anni ha sconvolto l’Europa, è ormai al termine, e lui avrebbe tutti i motivi per rallegrarsi. Il peggio è passato, Hitler è stato sconfitto e la storia può forse ripartire. Non bisogna però dimenticare che Martin Buber discende da una famiglia di rabbi visionari. Dagli avi ha ereditato una vena d’inquieto messianismo e inoltre la sua Vienna non c’è più, e nemmeno la Germania in cui era stato intellettuale di primo piano. Visti da Gerusalemme, in cui si è rifugiato nel 1938, il fato dell’ebraismo e quello più generale dell’umanità gli sembrano scivolare “su uno stretto crinale tra gli abissi”. Il volume che ha ora preparato per la stampa ha un titolo che è tutto un programma: “Sentieri in utopia”. Buber è un sentimentale inveterato, e forse proprio per questo il pamphlet vuol mettere al bando sentimentalismi e romanticherie. Anzi, si aggrappa all’etimologia della parola e afferma che la sua non è una dottrina u-topica, cioè di un non-luogo, ma “assolutamente topica e costruttiva, intende cioè proporre mutamenti che possono compiersi nelle condizioni e con i mezzi dati”. Un utopismo freddo, insomma, e calcolato. Il topos è la Palestina ancora sotto mandato britannico, e i mezzi sono per Buber quelli delle colonie comunitarie ebraiche. E’ l’esperimento noto sotto il nome generico di kibbutz, ma che includeva al tempo di Buber un gran numero di varianti: non erano solo collettivi agricoli ma anche cooperative di produzione artigianale e industriale, socialiste o semi-anarchiche, rigorosamente sioniste o blandamente liberali, quasi sempre laiche, anche se talvolta venate di religiosità. Una realtà dinamica, difficile da raccogliere sotto un’unica definizione. La tesi del libro è che proprio questa disomogeneità costituisca una speranza per il futuro. In polemica con la Russia sovietica, rea di aver schiacciato la società sotto il peso dello Stato, Buber sostiene che le comuni ebraiche, povere d’ideologia ma ricche di spontaneità, possano addirittura proporsi come modello esportabile nel resto del mondo. Non che tutto vada bene, anzi. Ma almeno i kibbutzim non sono ancora naufragati, a differenza di quanto è avvenuto per i soviet, che per l’autore sono ormai privi di energia ideale. Non si può dire che a Buber manchi il coraggio, quando propone al lettore di scegliere “tra i due poli del socialismo”, da una parte ovviamente Mosca, e dall’altra…Gerusalemme. E’ evidente che questa presa di posizione appartiene agli antefatti dello Stato d’Israele, che sarebbe sorto di lì a tre anni. L’alternativa gerosolimitana all’Unione Sovietica può far sorridere oggi, quando i kibbutzim sono in declino inarrestabile e il panorama politico in Medio Oriente è radicalmente cambiato. Allora però, nel 1945, la comune, o piuttosto una comune di comuni, poteva sembrare il modo migliore per riannodare i fili del destino ebraico. E la religione? Sebbene tocchi l’argomento quasi di sfuggita, il libro non può fare a meno della Torah come crogiolo d’identità ebraica. “L’essenza autentica della comunità – scrive Buber – dipende dal suo centro…e certo l’originarietà del centro non potrà essere riconosciuta a meno che non lo sia nella trasparenza del divino”. Sibillino ma evocativo, come quasi sempre accade per questo filosofo esistenzialista, mezzo asceta e mezzo esteta.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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