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La Stampa Rassegna Stampa
01.11.2009 Obama un anno dopo
Le opinioni di Nahum Barnea, Alan Dershowitz, Amir Hamzawy

Testata: La Stampa
Data: 01 novembre 2009
Pagina: 10
Autore: Nahum Barnea, Alan Dershowitz, Amir Hamzawy
Titolo: «Buone intenzioni per lastricare le vie verso il nulla-Il presidente in cerca di equilibrio- La porta è socchiusa ma ancora nessuno ancora chiede di entrare»

La STAMPA dedica oggi, 01/11/2009, un supplemento a " Obama un anno dopo". Ne riprendiamo tre articoli di interesse per i nostri lettori. Il primo di Nahum Barnea, commentatore politico di Yediot Aaronot, il secondo di Alan Dershowitz, non solo famoso avvocato ma autore di libri su Israele di grande interesse, il terzo di Amir Hamzawy, dal giornale Al-Ahram, quotidiano del Cairo, di stretta osservanza governativa. Sarà per questa ufficialità che va letto fra le righe, essendo difficile in quel paese esprimere apertamente, e quindi in maniera comprensibile, il proprio pensiero.

Nahum Barnea: " Buone intenzioni per lastricare le vie verso il nulla "

 Nahum Barnea

Un anno fa, il 4 novembre 2008, mi trovavo al parco Grant di Chicago, era una bella serata d’autunno e avevo intorno a me decine di migliaia di americani in festa per l’elezione di Obama. L’esultanza era senza riserve, le aspettative esagerate. Il divario fra queste attese e la possibilità di realizzarle era chiaro sin da allora, a due mesi e mezzo dall’insediamento del Presidente alla Casa Bianca. Lo avevo intervistato all’hotel King David a Gerusalemme, qualche tempo prima delle elezioni. Più dei suoi argomenti, mi avevano colpito la sua pacatezza, la sua padronanza del contesto, la naturalezza con cui si muoveva e parlava. Non fece alcuno sforzo per incantare il suo intervistatore: era sicuro di averlo conquistato ancor prima di rivolgergli la parola.
Quando, al Cairo, decise di tenere un discorso destinato ad aprire una pagina nuova nei rapporti fra Stati Uniti e mondo islamico, Obama ritenne giusto organizzare una tavola rotonda con i giornalisti. Il panel era davvero fuori dal comune: due egiziani, di cui uno membro dell’opposizione anti-americana, un siriano, un libanese cristiano, un saudita, una palestinese, un indonesiano e un ebreo israeliano. Incominciammo subito col chiederci a vicenda quale fosse il criterio comune, senza trovare risposta.
Appena si accorse della mia presenza, il siriano fuggì. Lo stesso fece uno dei due egiziani. I giornalisti arabi che scelsero di restare hanno ripetuto più volte al Presidente americano la loro simpatia per la causa palestinese. Ciononostante, sono stati coperti di ingiurie da parte dei media arabi. Non per via di Obama, bensì a causa mia. L’unica che si è sentita a proprio agio allo stesso tavolo con me è stata la giornalista palestinese.
Il discorso di Obama al Cairo aveva per presupposto il sistema di valori americano, secondo cui l’uomo è buono per natura, e si tratta solo di aiutarlo a tirare fuori quel bene che ha in sé. In Israele, quel discorso è stato accolto con diffidenza: per 16 anni gli israeliani avevano sentito da due Presidenti - Clinton e Bush - musica per le loro orecchie. Siamo stati viziati. Nutrivamo la convinzione che non solo la Casa Bianca ci amasse, ma che questo sentimento fosse esclusivo. E poi arriva un Presidente americano che paragona la nostra sofferenza a quella dei palestinesi e, peggio, accosta la loro alla Shoah.
Quando, subito dopo il discorso del Cairo, ho riferito delle dure reazioni in Israele, per risposta ho sentito un gran sospiro, come a dire «sapevamo che sarebbe andata così». Bush - era il commento - ha lasciato una situazione molto complicata. Ogni giorno che passa perdiamo dei soldati in Afghanistan e in Iraq. L’Iran sta sviluppando i suoi armamenti nucleari. Dobbiamo rifare tutto. Poi Obama è andato a visitare le piramidi di Giza. «Vale la pena vedere anche la Sfinge - gli suggerii -. Forse potrebbe insegnarle qualcosa».
Contrariamente alle aspettative americane, il mondo arabo ha accolto con freddezza quel discorso. I regimi autoritari non hanno apprezzato il fatto che Obama si fosse rivolto ai giovani di quei Paesi, aggirando i governanti. E soprattutto, non hanno per nulla gradito il suo richiamo a una normalizzazione con Israele. In quel mercato che è il Medio Oriente la generosità è considerata un peccato: non si dà niente gratis, nemmeno al Presidente degli Stati Uniti. Tanto in Israele quanto nei Paesi arabi, Obama si è dunque ritrovato con appiccicato addosso l’aggettivo più impietoso di tutto il lessico politico mediorientale: «naïf».
Da allora sono trascorsi cinque mesi, e per molti aspetti la situazione non ha fatto che peggiorare. George Mitchell, l'inviato speciale che Obama ha nominato in Medio Oriente, è un uomo straordinario, esperto di trattative, conosce bene la regione ed è ben visto da tutti i governi in causa. Mitchell è venuto più volte in Medio Oriente, ma i frutti del suo lavoro sono ancora tutti da vedersi. L’impressione è che i leader, cioè Benjamin Netanyahu da parte israeliana e Mahmud Abbas da quella palestinese, non muoiano dalla voglia di fare progressi, ciascuno per i suoi motivi. Un americano coinvolto nei contatti con le parti, mi ha descritto la situazione in questi termini: «L’autorità palestinese vuole una soluzione senza trattativa; il governo israeliano vuole una trattativa senza soluzione».
James Baker, Segretario di stato all’epoca di Bush padre e grande mediatore, ha detto una volta che nessun americano può volere la pace più di quanto la vogliano le parti in causa. Il governo di Obama aspira ad arrivare alla firma di un accordo a due anni dall'inizio del suo mandato. Questo obiettivo non ha, al momento, nessun partner effettivo, né da parte araba né da parte israeliana. E il tempo non gioca certo a favore, anzi. Il persistere degli insediamenti ebraici in Cisgiordania rende difficile la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele. Obama aveva ragione quando ha invocato il congelamento dell’edilizia nei Territori. Ha sbagliato invischiando il suo governo in una trattativa per un congelamento parziale. Qualunque compromesso a tale proposito sarebbe contestato tanto dalla piazza palestinese quanto dalla destra israeliana, e finirebbe per indebolire la credibilità morale della Casa Bianca.
I presidenti americani di solito inaugurano il loro mandato con la decisione di fare tutto il contrario del predecessore. È stato giusto per il passaggio da Bush padre a Clinton, da Clinton a Bush figlio, lo è a maggior ragione per quel che riguarda ora il passaggio dal governo di Bush figlio a quello di Obama. Bush era fedele al principio dell’ingerenza americana, Obama propugna l’engagement.
Ma quando non è corrisposta, la disponibilità al dialogo viene avvertita come una debolezza. I primi ad aver malamente approfittato della disponibilità offerta dal governo americano sono stati gli iraniani. La Turchia di Erdogan ha seguito il loro esempio. A tutt’oggi, Obama non è ancora riuscito a convincere nessuno che sotto il guanto di velluto si nasconde il pugno di ferro. Ha perso credito presso l'opinione pubblica americana e di conseguenza anche all'estero. La decisione del comitato per il Nobel non ha fatto che peggiorare la situazione: gli svedesi hanno voluto incoraggiare i suoi sforzi per la pace, ma di fatto lo hanno danneggiato sul fronte interno.
Un anno è uno scorcio di tempo molto ridotto. Nove mesi lo sono ancora di più. Le possibilità che il governo Obama ha di ottenere qualche risultato in campo di politica estera, compreso nel contesto di una soluzione del conflitto mediorientale, non sono venute meno. Nemmeno i suoi più accesi oppositori sono in grado di offrire una loro soluzione, più rapida e efficace, per arrivare alla pace.
Tutti i presidenti americani degli ultimi cinquant’anni hanno aperto il loro mandato con una consapevolezza autentica dell’impegno per l’esistenza e il bene d’Israele. Posso indicarne solo uno che da simpatizzante è diventato nemico: Carter. La determinazione e la tenacia di Carter hanno spianato la strada per l’accordo di pace fra Israele ed Egitto. Egli ha dato un contributo storico a Israele e a tutto il Medio Oriente, ma poi la capziosità l’ha accecato. Negli ultimi anni si è mobilitato per ogni questione che riguardasse i palestinesi, tenendo discorsi moraleggianti più consoni a un omelista evangelico che a un ex Presidente degli Usa.
Obama è circondato da consiglieri che conoscono Israele e la sua storia, e che desiderano il suo bene con tutto il cuore. Il che non significa che siano disposti ad assecondare ogni capriccio del governo israeliano o qualunque dichiarazione dei leader ebrei d’America. Sono infatti persone pragmatiche, guidate da istinti d'ordine politico. Obama ha portato nella dinamica interna della Casa Bianca una profonda stima per i valori di Israele, e accanto ad essa una concezione del mondo che predilige il dialogo all'uso della forza, considera l'occupazione un torto morale cui bisogna rimediare, è attenta alla sofferenza degli oppressi, chiunque essi siano. Questa concezione s’accompagna a un atteggiamento fondamentalmente ottimistico, costruttivo, nell’ambito della politica estera. Essa non va contro l’interesse di Israele. La questione è se possa trovare spazio nell’attuale realtà del Medio Oriente.
La via che porta all’inferno, dice un vecchio proverbio, è lastricata di buone intenzioni. I primi nove mesi del governo Obama insegnano che le buone intenzioni possono lastricare anche la via che non porta da nessuna parte. Il presidente americano non è un messia. E nemmeno un mago. Non sarà in grado di inventare la pace ab nihilo.

Alan Dershowitz: " Il presidente in cerca di equilibrio "

 Alan Dershowitz

L’elezione di Barack Obama - giovane, democratico, affascinante e progressista – ha suscitato in tutto il mondo grandi speranze per una amministrazione più attenta ai temi delle libertà civili e dei diritti umani rispetto al governo Bush. Ma, a quasi un anno dalla sua elezione, è chiaro che la retorica dell’Ufficio ovale è cambiata in modo significativo. Certo, al presidente Obama piacerebbe tenere l’ago della bussola orientato verso la libertà e i diritti. Ma la realtà è che in un momento che vede molti americani ancora spaventati dalla minaccia del terrorismo, i buoni propositi e la speranza restano in secondo piano rispetto alla diffidenza e al pragmatismo.
Il candidato Obama promise di chiudere Guantanamo, che è ancora aperto. È evidentemente difficile decidere che fare di un gruppo indifferenziato di persone che può includere sia qualche terrorista eccezionalmente pericoloso e intenzionato a danneggiare l’Occidente sia tanti persone del tutto o in parte innocenti finite nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La maggior parte degli elementi più pericolosi non potrebbero essere processati anche se ci sono prove – giudicate attendibili dall’intelligence – della loro capacità di nuocere. Alcune delle informazioni arrivano da agenti sotto copertura di cui non si può rivelare l’identità. Altre da intercettazioni o confessioni che potrebbero risultare inammissibili in tribunale.
In altri casi ci sono evidenze sufficienti a stabilire la fondatezza della minaccia, ma inadeguate rispetto ai rigorosi standard richiesti dalla prova oltre ogni ragionevole dubbio. Alcuni accademici hanno proposto che gli Stati Uniti adottino un sistema, simile a quello usato in Gran Bretagna in tempi di guerra, che autorizzi la detenzione preventiva di terroristi pericolosi in base a standard diversi, e meno rigorosi rispetto a quelli richiesti nel diritto penale. Altri studiosi propongono di interpretare in senso estensivo le leggi penali espandendo le norme che regolano la cospirazione e le leggi federali per coprire i casi in discussione. E c’è anche chi propone semplicemente di lasciar libero chiunque non possa essere giudicato secondo la legge penale ordinaria. Infine, c’è il problema di dove trasferire i detenuti pericolosi se Guantanamo venisse chiuso. Vale il detto «non nel cortile di casa mia» e questo ha reso difficile al Congresso andare avanti con qualsiasi tentativo di chiusura. Questo esempio illustra la differenza tra retorica e speranza da un lato e realtà e paura dall’altro. Il Presidente deve tenere conto di tutte queste considerazioni.
Altri temi su cui il presidente Obama si è espresso in modo eloquente includono la tortura e altre forme violente di interrogatorio utilizzate per acquisire informazioni di intelligence ritenute essenziali per prevenire attacchi terroristici. A differenza del presidente Clinton che si disse disposto a usare la tortura come ultima alternativa in una situazione esplosiva, e del presidente Bush, la cui amministrazione la utilizzò in modo indifferenziato, il presidente Obama si è espresso contro l’uso della tortura in qualsiasi caso. Molti ritengono, però, che se si dovesse trovare sul serio a fronteggiare un’emergenza, non vorrebbe rendersi responsabile delle morti, evitabili, di centinaia di migliaia di persone. Spero non succeda mai.
E tuttavia un’altra questione richiede un delicato equilibrio, è l’uso del monitoraggio effettuato con mezzi elettronici altamente sofisticati. La disponibilità di questa tecnologia dà agli Stati Uniti un vantaggio competitivo non solo sui terroristi ma anche sulle altre nazioni. E tuttavia la minaccia alla privacy è reale. Finora l’amministrazione Obama non ha fatto nulla, almeno pubblicamente, per disciplinarne l’uso.
Fin qui nessuna amministrazione si è cimentata con la libertà di parola, o di religione o con altri diritti politici. Ci sono state alcune restrizioni della libertà di movimento in particolare per mediorientali o musulmani e ci sono state cause che hanno contrastato con successo questi provvedimenti. Per fortuna le maggiori organizzazioni per le libertà civili come la American Civil Liberties Union e la Anti-Defamation League hanno tenuto alta la guardia contro gli abusi.
Le parole chiave dell’amministrazione Obama quando si tratta di conciliare libertà e sicurezza sono cautela, prudenza, pragmatismo e gradualità. Da candidato Barack Obama apprezzava lo slogan coniato per lui: «No drama Obama». Questo l’ha portato alla presidenza. Ora lui sa parlare in modo sommesso ed eloquente, ma esercita il potere in modo esitante e discontinuo. Ha trovato il tono giusto, detto le parole adeguate e non ha intrapreso nessuna azione che potrebbe essere definita distruttiva della libertà. Sembra credere sinceramente che si possa coniugare la sicurezza con la libertà. Molti dei suoi critici, in particolare il vice presidente Cheney, sono convinti che sbagli, che si doveva barattare un po’ di libertà in cambio del massimo della sicurezza. Il presidente Obama non ha risposto direttamente a questa sfida, ma la mancanza di una direzione di fronte a una paura costante potrebbe essere l’unica scelta possibile per un Presidente che è votato alla sicurezza e alla libertà allo stesso tempo.
**Docente di Etica del Diritto
alla Law School di Harvard

Amir Hamzawy: " La porta è socchiusa ma ancora nessuno ancora chiede di entrare ".

 Amir Hamzawy

Quando si parla di sviluppo democratico nel mondo arabo, la palla finisce dritta nel campo dei movimenti di opposizione islamista. Obama, sfidando le attese della vigilia, ha usato la tribuna dell’Università del Cairo per annunciare una politica nuova e non per minimizzare i problemi interni al mondo islamico e la promozione della democrazia in favore di una visione più realista. Gli Stati Uniti, ha detto, rispetteranno «tutte le voci rispettose della legge... anche se dovessimo essere in disaccordo con esse» e faranno buona accoglienza «a tutti i governi democraticamente eletti e pacifici». Obama si rivolgeva a un pubblico specifico: i movimenti di opposizione islamista nel mondo arabo che hanno rinunciato alla violenza, accettato il processo politico e che rappresentano una forza popolare e potenziale per il populismo nella regione. Ora che gli Stati Uniti sono intenzionati a collaborare con loro, quanto tempo ci vorrà perché si siedano attorno a un tavolo?
I movimenti di opposizione islamista hanno bisogno degli Usa più di quanto non siano disposti ad ammettere. Cercano un riconoscimento internazionale come forze politiche serie. E vogliono che gli Usa definiscano il loro impegno verso la democrazia nel mondo arabo e facciano pressioni sui regimi arabi per un maggiore pluralismo politico. Dovranno però mandare a Obama segnali forti delle loro intenzioni.
Le loro risposte al discorso di Obama al Cairo non sono certo state un esempio di azione coraggiosa. In Marocco il partito moderato della Giustizia e dello Sviluppo ha detto che il discorso di Obama era «certamente positivo» ma ha messo in discussione la diplomazia americana nel conflitto arabo-israeliano. Nei Territori palestinesi Hamas inizialmente ha criticato Obama, e solo in un secondo momento ha riconosciuto il suo «linguaggio positivo». In Egitto i Fratelli musulmani hanno criticato Obama per aver ignorato «i regimi autoritari e i sistemi corrotti» nella regione.
Per catturare l’attenzione americana, i movimenti di opposizione islamista dovranno rispondere a due preoccupazioni cruciali di Washington: la loro posizione su questioni-chiave internazionali terrà conto della stabilità? E su questioni-chiave interne rifletterà un impegno verso gli ideali e le procedure democratiche?
I movimenti religiosi si dedicano a questioni assolute - il bene e il male, il giusto e l’ingiusto - e possono chiedere ai loro seguaci piena accettazione, essendo l’appartenenza volontaria. I movimenti politici, invece, prendono decisioni che riguardano tutti i cittadini, e per questo devono rispettare principi di base condivisi da tutti. Devono tollerare il dissenso, essere aperti al compromesso e seguire le leggi del Paese, anche se non le approvano.
Formulando le loro posizioni dovrebbero tenere bene in mente le regole di Obama per chi detiene il potere: «Devi conservare il tuo potere attraverso il consenso, non la coercizione; devi rispettare i diritti delle minoranze e partecipare alla vita politica con spirito di tolleranza e compromesso; devi mettere gli interessi del tuo popolo e il legittimo svolgimento del processo politico al di sopra del tuo partito».
Sarà lunga la strada per convincere gli Stati Uniti a ingaggiare i movimenti islamisti nel lavoro per rendere il mondo arabo un posto migliore. Ovviamente, alla fine, sono gli stessi governanti autoritari che devono fare le riforme. Ma una collaborazione pragmatica tra la nuova amministrazione Usa e i movimenti islamici pacifici potrebbe spronare questi governanti verso un mondo arabo più pluralista. Ora che la palla è nel loro campo, i movimenti di opposizione islamista potrebbero cogliere il momento.
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