Con questo articolo inizia la sua collaborazione il prof. Mordechai Kedar, storico a Scienze Politiche per l'area mondo arabo all'Università Bar-Ilan di Tel Aviv, dove insegna dal 1994. Collabora al BESA Center, for strategic studies, diretto da Efraim Inbar, al Herzliyya Inter-Disciplinary Center on radical islam, e al Jerusalem Insititute for Israel Studies della Hebrew University di Gerusalemme.
La traduzione dei suoi articoli è a cura di Antonella Donzelli e Avi Kretzo.
Sullo sfondo dei disordini fomentati a Gerusalemme dal movimento islamico durante l’ultima festività di Sukot (festa delle capanne n.d.t.) è sorta per l’ennesima volta la domanda “a chi appartiene la città?”. In Israele, il fatto stesso che i mezzi di comunicazione si pongano questo interrogativo già di per sé implica l’esistenza di un problema. I mass media, artefici e custodi di gran parte delle nostre fonti d’informazione e del nostro sapere (cosa per la quale noi finanziamo il loro stipendio) hanno dei dubbi riguardo l’appartenenza della città. In questo contesto mi è stato chiesto per ben tre volte – due dalla seconda rete radiofonica (Reshet Beth), una dalla radio israeliana in lingua araba (Kol Israel be’aravit) - di affrontare in diretta la questione insieme con lo sceicco Kamal Khatib, il numero due dell’ala radicale del movimento islamico nel Nord d’Israele. Nel corso di questi dibattiti ho sostenuto che il popolo d’Israele viveva a Gerusalemme già 3000 anni fa, che in essa c’erano i due templi ebraici e che la città era la capitale degli Ebrei molto prima che il suolo d’Israele venisse conquistato dalle tribù mussulmane nel VII secolo dopo Cristo, cioè circa 1400 anni fa. Questi sono fatti storici che trovano testimonianza e conferma nelle nostre fonti scritte e nei testi di popoli antichi come i Greci e i Romani. Anche iscrizioni murarie Egizie e incisioni su argilla nell’antica Babele confermano gli scritti della Bibbia riguardo la centralità, l’importanza e la continuità di Gerusalemme nella storia del popolo ebraico. Per non parlare dei ritrovamenti archeologici di cui la terra d’Israele, e Gerusalemme in particolare, è ricca, che confortano le fonti storiche. Da queste discussioni radifoniche con Khatib è emerso un “dato” molto importante, sul quale lo sceicco basa il diritto degli Arabi sulla nostra terra: i Palestinesi sarebbero i discendenti dei Cananei, in particolare dei Gebusei. Vale a dire, i Palestinesi sarebbero figli di Gerusalemme (Gebus), ancor prima che il primo ebreo, nostro padre Abramo, giungesse nella terra che aveva ricevuto come promessa divina. Sempre secondo Khatib, Melchisedech, re di Salem, del quale si parla nella Genesi, sarebbe un arabo palestinese, il padre dei padri dei Palestinesi che vivono oggi nel nostro Paese. Secondo questa versione palestinese della storia, gli Ebrei o i Giudei sarebbero arrivati in Israele dopo i Palestinesi, gli abitanti originari di questa terra, che qui sarebbero rimasti prendendo il nome di Samaritani. Questa teoria non è sostenuta in alcun libro serio di storia e non appare in nessun testo antecedente gli ultimi cinquant’anni. Tutto ciò non è altro che una recente mistificazione araba, il cui scopo è quello di delegittimare il diritto storico degli Ebrei sulla terra d’Israele. “L’epica palestinese” moderna ignora alcuni dati basilari. Primo: la lingua araba non è d’origine Cananea ma risale a un idioma del deserto che oggi è nei confini dell’Arabia Saudita. L’arabo si è diffuso nell’area mediorientale soltanto a partire dal VII secolo dopo Cristo, quando le tribù beduine si spinsero alla conquista dei popoli vicini, depredandoli e saccheggiandoli. Tuttora i beduini in Israele parlano un dialetto molto vicino all’arabo in uso nella Penisola Arabica. Mi chiedo: se fino al VII secolo l’aramaico era la lingua prevalente in Israele, come e quando sarebbero arrivati qui i “cananei” che parlavano arabo? Secondo: molti Arabi che oggi vivono a ovest del fiume Giordano portano cognomi che testimoniano la loro provenienza da svariate regioni o città attorno a Israele, come AlMasri (l’Egiziano, in quanto Masar significa Egitto, n.d.t.), AlAraqi (proveniente dall’Iraq, n.d.t.), AlTrabelsi (da Tripoli, in Libano), AlKhorani (da Khoran, regione della Siria meridionale), Khalabi (dalla città di Chaleb, nella Siria settentrionale), AlZurani (dalla città di Zur, Tiro), AlSidoui (dalla città di Sidone), AlZarqawi (dalla città di Zarqa, in Giordania) ecc. Anche loro sarebbero “Cananei” o, per caso, “Gebusei”? Oltre a ciò, non esiste alcun libro che documenti la presenza di Cananei nella terra d’Israele dopo il VI secolo avanti Cristo, periodo in cui è stato costruito il Secondo Tempio di Gerusalemme (con il ritorno degli Ebrei da Babilonia, n.d.t.). Quanto ai Samaritani (cioè i presunti Palestinesi, n.d.t.), si tratta di una popolazione che era stata deportata in Israele dalla città di Kutha, nell’attuale Iraq, a opera di re Sennacherib (figlio dell’assiro Sargon, n.d.t.), il quale avrebbe trasferito altrove i Cananei, che a quell’epoca risiedevano sul territorio d’Israele. A quanto pare i dati storici non impediscono ai Palestinesi d’inventare una storia nuova, artificiale, destinata soltanto a contrastare il diritto degli Ebrei sulla terra dei loro padri. Gli uomini del movimento islamico abbelliscono questa “storia” con un ornamento d’artigianato nostrano: secondo lo sceicco Khatib (in onda su Reshet Beth), la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme è stata costruita 40 anni dopo la moschea della Mecca, eretta al momento della creazione del mondo. Questo racconto fantastico contraddice la stessa storia islamica, secondo la quale i mussulmani hanno costruito Al-Aqsa alla fine del VII secolo dopo Cristo, per ordine dei califfi Omayyadi, che regnavano a Damasco. Questi, infatti, cercavano un luogo alternativo per l’Hajj (il pellegrinaggio), poiché nel 682 dopo Cristo alla Mecca era scoppiata una rivolta che impedì agli abitanti della Siria di recarvisi in pellegrinaggio. Anche in questo caso “l’epica islamica” ignora la propria storia, ancorché scritta di suo pugno. Un’altra argomentazione esposta dallo sceicco Khatib sostiene che i mussulmani tengono in grande rispetto re Salomone, che ha edificato il Primo Tempio, e che considerano un profeta mussulmano, come suo padre, re Davide. È interessante notare come simili operazioni (di espropriazione e appropriazione”, n.d.t) siano diffuse anche presso altri popoli del Medio Oriente. In Egitto, da oltre 100 anni, dinnanzi ai resti delle tombe della valle del Nilo molti Egiziani si stringono nella memoria dell’antico Egitto, sostenendo di essere i discendenti dei faraoni. In Iraq molti sono convinti di essere gli eredi degli antichi Babilonesi, tanto che nell’esercito di Saddam Hussein c’era la divisione Hammurabi, a nome di uno dei grandi re babilonesi che regnò nel XVIII secolo avanti Cristo. In Libano i Maroniti credono di essere i figli dei Fenici e i Siriani di derivare dagli Assiri e dagli antichi Aramei. Dunque, mettiamola così: quando nel VII secolo dopo Cristo le tribù beduine si slanciarono dall’Hijaz (regione nord occidentale della Penisola Arabica dove si trovano Mecca e Medina, n.d.t.) alla conquista del Medio Oriente, imponendo anche la loro lingua, pare proprio che s’impadronirono non solo delle terre, ma anche della loro storia, attribuendola a se stessi. In altre parole, essi non sono più i figli dei beduini che vivevano nel deserto, ma i figli di antiche civiltà che da migliaia di anni abitavano le terre da loro conquistate. Insomma, poiché gli Arabi oggi faticano a confrontarsi con la storia ebraica documentata in tutti i testi riconosciuti nel mondo “illuminato”, di conseguenza hanno inventato per se un collegamento con la storia che ha preceduto gli Ebrei stessi. E poiché i mussulmani sono consapevoli della giovane età della loro religione rispetto a quelle ebraica e cristiana, sostenendo che figure bibliche come re Salomone erano profeti mussulmani, essi “anticipano” l’Islam e lo fanno precedere cronologicamente a religioni in realtà più antiche. Il fatto che agli occhi degli Arabi il beduino appaia inferiore e primitivo fa sì che essi preferiscano essere identificati come eredi di popoli antichi provenienti dalle regioni considerate culla della civiltà, e non discendenti della loro cultura d’origine, cioè quella beduina. Attraverso l’appropriazione della storia d’altri popoli, i Palestinesi costruiscono l’identità e la coscienza palestinese moderna, per combattere gli Ebrei non soltanto sul terreno della storia ma anche su quello della geografia. In altri termini, se la storia della terra d’Israele è loro, ciò significa che anche il futuro d’Israele appartiene loro. Non è compito del Ministero della Cultura dello stato d’Israele trasformare i suoi abitanti arabi in Sionisti, né tutti gli Ebrei in religiosi osservanti, ma questo ministero farebbe meglio a rafforzare l’insegnamento della storia del popolo d’Israele e della sua terra [...]. Il nostro problema, infatti, non sono gli Arabi che inventano la storia, ma gli Ebrei che la dimenticano [...]. La storia stessa c’insegna che un popolo che ha una forte consapevolezza delle proprie radici e identità sopravviverà a lungo, diversamente è destinato a scomparire.