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L'Espresso Rassegna Stampa
31.10.2009 Che succede all'Espresso ? E' la prima volta che non attacca Israele
Intervista Bibi e Salam Fayyad, mentre Alessandra Mammì descrive gli ultimi film israeliani

Testata: L'Espresso
Data: 31 ottobre 2009
Pagina: 92
Autore: Lally Weysmouth-Alessandra Mammì
Titolo: «Così difenderò Israele-L'amore e la guerra»
Abituati come siamo all'informazione pregiudizialmente ostile a Israele che l'ESPRESSO ci propina ogni settimana, grande è stato il nostro stupore nel non trovarvi nulla di ostile nel numero datato 5 novembre 2009. Di più, vi abbiamo trovato tre pezzi che segnaliamo volentieri per la loro sostanziale correttezza. I primi due, interviste a Bibi Netanyahu e Salam Fayyad, tradotti da Newsweek, sono di Lally Weymouth. Il terzo, sul cinema israeliano, di Alessandra Mammì. Si astiene persino Paola Caridi, di solito con il dente avvelenato, in una breve intervista con Etgar Keret. Miracolo ?
Lally Weymouth: " Così difenderò Israele ", intervista con Benjamin Netanyahu.
 
Secondo coloro che conoscono a fondo Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano considera la minaccia iraniana in termini assoluti: la sua missione è proteggere gli ebrei da un secondo Olocausto.

Come numerosi israeliani, il primo ministro è indignato di fronte ad un dossier Onu supervisionato dall'ex giudice sudafricano Richard Goldstone. Il rapporto accusa Israele di crimini di guerra per l'invasione di Gaza all'inizio di quest'anno. Abbiamo intervistato Netanyahu a Gerusalemme la scorsa settimana. Ecco il suo pensiero.

Come considera il rapporto Goldstone?

"Pensavo esistessero limiti all'ipocrisia, ma evidentemente avevo torto. La cosiddetta Commissione dei Diritti Umani accusa Israele - che ha legittimamente difeso se stesso dagli attacchi di Hamas - di crimini di guerra. Hamas, tuttavia, non ha commesso un solo genere di crimine di guerra, ma si è macchiato di quattro tipi diversi di crimine. Primo: Hamas si augura la distruzione di Israele e ciò, secondo la carta dell'Onu, è considerabile un crimine di guerra - incitamento al genocidio, per essere precisi. Secondo: ha deliberatamente fatto fuoco sui civili. Terzo: i miliziani si sono fatti scudo dietro ai civili. Quarto: hanno sequestrato il nostro soldato Gilad Shalit, senza fargli avere alcun contatto con la Croce Rossa per tre anni. E chi viene accusato di comportamento criminale, alla resa dei conti?".

Le persone, qui in Israele, hanno la sensazione che il rapporto sia profondamente ingiusto. Alcuni, tuttavia, richiedono un'indagine interna.

"Ciò non a causa del rapporto Goldstone, ma per soddisfare i nostri specifici bisogni interni. Il modo migliore per disinnescare questa questione è parlare il linguaggio della verità - poiché Israele si stava solo difendendo contro un attacco ingiusto".

Il mancato appoggio di paesi come l'Inghilterra e la Francia l'ha sorpresa?

"Credo che tutti i paesi dovrebbero finalmente realizzare di essere coinvolti in prima persona nella guerra contro questo terrorismo brutale. La chiarezza morale è l'arma più importante contro il terrorismo".

Cosa ne pensa dei colloqui di Ginevra, che l'amministrazione Obama e altre nazioni occidentali sembrano aver intrapreso con l'Iran?

"Forse è troppo presto per parlare, perché cruciale è il fatto che la comunità internazionale stia mettendo pressione all'Iran per fermare l'arricchimento dell'uranio, che ha un solo scopo: lo sviluppo e la proliferazione di arsenali atomici".

Qualcuno ci ha riferito, questa settimana, che Lei pensa che sia suo dovere prevenire un secondo Olocausto del popolo ebraico.

"Questo è stato il sentimento di tutti i primi ministri israeliani".

Crede che questo sia oggi più vero riguardo la minaccia nucleare proveniente dall'Iran?

"Sono convinto che oggi la questione non è solo la sicurezza di Israele, ma del mondo. Società libere ed aperte sono minacciate da un cupo radicalismo che sta cercando di armare se stesso ed i suoi vicini con armi nucleari".

I vostri vicini arabi si dicono molto preoccupati.

"Non esiste, forse con un'unica eccezione, e non sono molto sicuro al riguardo, un singolo paese arabo che non sia preoccupato dalla possibilità di un Iran nuclearizzato. E, come ovvio, molte delle grandi potenze in Europa comprendono il pericolo. Se il peggio avvenisse, sarebbe un momento di tragica impotenza storica".

Si dice che Israele si stia preparando ad attaccare l'Iran.

"Non sono responsabile delle dicerie. La nostra convinzione è che il problema sia globale e che stia affliggendo la comunità internazionale. Per questo motivo gli sforzi degli Stati Uniti sono il modo migliore per fermare il pericolo".

Cosa crede dovrebbe accadere con i palestinesi?

"Se dovessi riassumere la situazione, direi che l'inizio dei negoziati di pace dovrebbe aver luogo senza condizioni, e tali negoziati dovrebbero portare ad uno Stato palestinese demilitarizzato che riconosca lo Stato ebraico. Questa breve asserzione abbraccia la sostanza del problema e della soluzione. Il succo del discorso è che per 62 anni i palestinesi si sono rifiutati di riconoscere Israele come lo Stato-nazione del popolo ebraico".

I palestinesi dicono di riconoscere Israele, ma ora è richiesto loro di riconoscerlo come uno Stato ebraico.

"È vero. Israele non è uno Stato binazionale. Abbiamo non ebrei che vivono qui con pieni ed equi diritti, ma questa nazione ha due elementi che ne assicurano la natura particolare. È la patria di ogni ebreo. Ed esiste un vastissimo consenso, in Israele, riguardo la soluzione palestinese: questo problema va risolto al di là dei confini israeliani. Gli ebrei vengono qui, i palestinesi andranno lì. E dunque decidano. Questa è la base per una risoluzione".

Cosa pensa del presidente Obama?

"Le persone conoscono poco la grande cooperazione e la trasparenza tra l'amministrazione Obama ed il mio governo. Parliamo apertamente, ed io apprezzo davvero i passi compiuti dall'amministrazione Obama contro il distorto dossier Goldstone. Non posso che tenere in grande considerazione la pressione che gli Stati Uniti fanno sull'Iran al fine di fermare il suo programma nucleare. Tutto questo si accompagna ai continui sforzi per rilanciare il processo di pace tra noi ed i palestinesi".

'Newsweek' - L'espresso'
traduzione di Valeria Dani
 
Lally Weymouth: " Il nostro stato non può più attendere ", intervista con Salam Fayyad
 Salam Fayyad
 
Il primo ministro palestinese Salam Fayyad ha preso a cuore l'esempio degli ebrei che crearono le loro istituzioni prima ancora che Israele nel 1948 fosse dichiarato uno Stato. Sta tentando infatti di fare qualcosa di analogo per i palestinesi, e di dare vita alle istituzioni che permetteranno loro tra due anni, di dichiarare di essere uno Stato. Abbiamo intervistato Fayyad nel suo quartiere generale di Ramallah.

Signor primo ministro, ha un piano per creare le istituzioni e uno Stato palestinese entro due anni?

"Abbiamo assunto l'impegno di portare
a termine la creazione delle istituzioni
e questo significa dotarci della possibilità
di governarci da soli, in ogni ambito possibile, nel giro di due anni.
Possiamo farcela e dobbiamo farcela".

Che cosa ha in mente, in particolare? Una banca centrale? Strade?

"Questo e altro. Adesso abbiamo anche un'autorità monetaria che è quasi una banca centrale. Si è conquistata la fiducia non soltanto del popolo palestinese, ma sicuramente dei nostri donatori, compresi soprattutto gli Stati Uniti, che di recente hanno trasferito 200 milioni di dollari direttamente nelle casse del nostro Tesoro, dopo che i loro revisori contabili sono venuti a effettuare dei sopralluoghi e vedere che cosa stavamo approntando".

C'è chi l'ha paragonata ai primi sionisti.

"Io non mi stanco di ripetere che Israele
non è nato nel 1948. Fu proclamato Stato nel 1948, ma le sue istituzioni erano state create prima di quella data".

Quando parliamo di lei agli israeliani o agli americani ci rispondono: "È un tecnocrate brillante, ma non è un politico". Nutre ambizioni politiche?

"Alle ultime elezioni parlamentari sono stato eletto membro di questa legislatura, che purtroppo al momento non è operativa.
Posso dirle però che ora come ora mi interessa portare avanti questo piano. Dopo tutto, è questo il motivo per il quale sto facendo campagna elettorale. È questo che voglio veder realizzato".

In che misura lavora con il governo israeliano?

"Ci sono vari livelli ai quali si può collaborare con Israele. Per le questioni di tutti i giorni, è indubitabile che vi siano rapporti con gli israeliani. Israele controlla le frontiere e tutti i punti di accesso. Voi avete potuto raggiungermi qui a Ramallah e senza dubbio sarete passati da un checkpoint controllato dagli israeliani. Per quanto riguarda però in che misura gli israeliani stanno cercando di aiutarci a concretizzare questo piano, i pareri sono alquanto discordi. Dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter fare quello che vogliamo fare".

Gli israeliani si sono ritirati da Gaza, hanno raso al suolo tutti i loro insediamenti e sono stati presi di mira per anni da missili lanciati da Gaza. In che modo potete assicurare agli israeliani che se si ritireranno dalla Cisgiordania voi vi farete garanti della sicurezza?

"La sicurezza è una necessità tanto palestinese quanto israeliana. Ci sono problemi a Gaza e non qui, perché noi siamo qui e non lì".

Gli israeliani sono turbati dal rapporto Goldstone. Dicono che l'Autorità Palestinese disse loro a porte chiuse che riteneva che non fosse una cattiva idea far fuori Hamas. E adesso credono che l'AP si stia comportando in modo ipocrita, affinché il rapporto arrivi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

"Nei media israeliani se ne parla. Non è vero che l'Autorità Palestinese a porte chiuse ha detto che era d'accordo (a bombardare Hamas, ndr). Da quando, del resto, Israele fa la guerrain nome del popolo palestinese?".

Crede che il rapporto Goldstone pregiudicherà l'iter del processo di pace?

Si immagina gli israeliani che dicono:
"Voi ci chiamate criminali di guerra, ma noi ci sediamo ugualmente al tavolo delle trattative?". "Non ho parlato di queste cose con le mie controparti israeliane. Se non altro questo dovrebbe servire a rammentare a tutti il processo di pace che deve essere fatto procedere oltre, per essere proficuo, per creare ciò di cui noi tutti abbiamo bisogno, una pace giusta e duratura per tutti".

Non crede che probabilmente Yasser Arafat avrebbe potuto accettare l'offerta di pace del 2000 dell'allora primo ministro Ehud Barak? Si ha sempre l'impressione che i palestinesi respingano qualsiasi proposta.

"Già, così sembra.Uno dei problemi  di noi palestinesi è che ogni qualvolta accade qualcosa, noi finiamo sempre all'angolo, per così dire, e pare che sia colpa nostra se non tutto va a buon fine. Quando l'inviato statunitense, il senatore George Mitchell, decise di chiedere un congelamento degli insediamenti israeliani, non lo fece perché lo avevano chiesto i palestinesi. Fu una posizione assunta dall'Amministrazione".

Pensa che il presidente Obama sia migliore del presidente Bush?

"Mi ha davvero colpito molto la priorità assoluta che Obama ha dato al processo di pace sin dall'inizio".

'Newsweek' - 'L'espresso'
traduzione di Anna Bissanti
 
Alessandra Mammì: " L'amore e la guerra " , identikit del nuovo cinema israeliano.
 il film " Lebanon" vincitore del Leone d'Oro a Venezia.
Lo Stato d'Israele non produce automobili, allo stesso modo non c'è alcuna ragione perché debba produrre film... Liquidava così il governo negli anni Novanta le pretese di cineasti infuriati che chiedevano pubbliche sovvenzioni. Ma i cineasti di ogni parte del mondo sono un osso duro e quando decidono di protestare non smettono finché non ottengono quel che gli spetta. Che nel caso di Israele era: 1. Passare dal ministero dell'Industria a quello della Cultura; 2. Godere, come è giusto, del sostegno dello Stato; 3. Pretendere che un primo ministro sappia riconoscere la differenza fra un film e una station wagon.

Il primo ad ammettere che la macchina del cinema è cosa diversa dall'industria dell'auto, fu Netanyahu: da quando nel 1995 riconosce ai film lo statuto di opera d'interesse culturale la produzione passa dai quattro o cinque titoli l'anno al record di 30 del 2009. Per un Paese di 7 milioni di abitanti è come far nascere una mini Hollywood che subito si dimostra un neonato con i muscoli. Tempo tre lustri e il cinema israeliano partecipa a tutti i festival del mondo, vince premi prestigiosi, stipula co-produzioni con l'Europa (Francia e Germania in primis), conquista un discreto successo di pubblico all'estero, esplode in tutti i generi - dalla commedia al documentario, dal film d'animazione a quello storico - e soprattutto è oggetto di omaggi e rassegne monografiche di indubbio prestigio. Il Nuovo cinema di Pesaro diretto da Giovanni Spagnoletti, lo scorso giugno tra un ottima scelta di film e un denso programma di incontri, ha indagato in largo e lungo la potenza del fenomeno pubblicando un volume ('Cinema israeliano contemporaneo', Marsilio) che regala un identikit di una cinematografia emergente. Mentre ultimo, ma non per ultimo, arriva ora il 'Pitigliani Kolno'a Festival' a Roma Casa del Cinema dal 14-18 novembre, dove tanta creatività è messa a confronto con l'altrettanto esplosivo fenomeno letterario.

Netanyahu aveva visto giusto. Il cinema ben inquadrato produce più di una scadente utilitaria. Ma anche i precedenti governi non avevano tutti i torti a diffidare dei cineasti e a temere che i frutti del loro ingegno non sarebbero stati opere di squisita propaganda. 'Lebanon', opera prima di Samuel Maoz vince il Leone d'oro a Venezia raccontando le terribili e anti-eroiche 24 ore di un pugno di ventenni che sognano ragazze e discoteca, mentre sono rinchiusi nel puzzo di un carro armato e nelle allucinazioni delle loro paranoie, costretti a uccidere per una guerra che non hanno voluto (la prima in Libano). Un film d'animazione come 'Valzer con Bashir' di Ari Folman da parte sua, conquista Cannes e sfiora l'Oscar con una storia analoga sull'inutile crudeltà della guerra e il senso di colpa per i massacri (Sabra e Shatila) e l'orrore non cambia se raccontato con matite e colori. Nel 'Giardino dei limoni'di Eran Riklis una donna palestinese lotta come Giovanna D'Arco per salvare i suoi alberi contro le ruspe israeliane pronte a raderli al suolo per motivi di sicurezza. E poi c'è la storia dei due soldati innamorati ('Yossi e Jagger') e quella di un agente del Mossad che deve spiare un giovane berlinese gay nipote di un vecchio nazista e ne resta affascinato ('Camminando sull'acqua'). Per non parlare della raffinata comicità con cui la macchina da presa segue una banda egiziana tutta vestita di turchese che si perde nel deserto sotto gli occhi di israeliani esterrefatti, gag, amori e amicizie ('La Banda').

Tra eroine arabe testarde e rompiscatole, soldati gay innamorati che offendono il mito della virilità israeliana macho e guerriera, adolescenti problematici come ovunque nel mondo ('Qualcuno con cui correre', dal romanzo di David Grossman) e l'immagine di un Paese bellicoso i cui abitanti più che eroi sono vittime di un conflitto endemico in cui credono sempre meno, i film raccontano una società lacerata e complessa. Per non parlar degli arabi, gente che all'origine del cinema israeliano era rappresentata come popolo pittoresco perennemente a cavalcioni di cammelli e che ora ha conquistato ruoli da coprotagonista. O addirittura co-regista come in 'Ajami' film diretto da Scandar Copti, arabo e Yaron Shani ebreo: opera prima per entrambi, attori non professionisti, dialoghi che frullano arabo e ebraico, vere storie e vera location, la polietnica borgata di Ajami a Giaffa con ebrei, musulmani e cristiani. Grande trionfatore in patria, 'Ajami' si è conquistato il diritto di rappresentare Israele alla prossima corsa agli Oscar, nonostante il crudo racconto di storie di emarginazione, povertà, corruzione, criminalità che ne fanno una sorta di israelitica 'Gomorra'.

Ma ben più sottili sono i virus che il cinema innesta nella monolitica immagine di Israele. "E vero che gli israeliani fanno fatica a esprimere le loro emozioni?", chiede il giovane tedesco all'agente del Mossad in 'Camminando sull'acqua'. "Non lo so. Non mi piace parlarne", risponde l'altro. Il pubblico ride, ma il regista Eytan Fox ne fa un punto fermo della sua poetica e politica: il tempo di esprimere le emozioni è arrivato e con le emozioni arrestare il circolo vizioso di odio e di massacro. E nel nome delle emozioni ecco che cinema e letteratura in Israele vanno di pari passo, mentre i film spesso nascono da traumi autobiografici, e il vecchio autore maiuscolo legato a forme e stili europei come Amos Gitai, cede il passo a una generazione più libera, duttile e internazionale che spesso arriva al cinema da esperienze televisive e pubblicitarie (vedi Maoz e Folman); una generazione che affonda le mani nelle storie di casa e vince non solo prestigiosi premi, ma quello che una guerra non potrà mai vincere: l'amore del pubblico.
 
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