Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 28/10/2009, a pag. III, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Nell’incertezza obamiana, sulla spianata vanno in scena prove di Intifada ".
Carlo Panella
Abu Mazen ha smentito, attraverso un suo portavoce, le voci circolate sui media israeliani e arabi che lo volevano intenzionato a non ricandidarsi alle elezioni indette per il 24 gennaio 2010. Avrebbe comunicato direttamente a Barack Obama la decisione durante una conversazione telefonica in cui avrebbe sostenuto che con il governo di Netanyahu in Israele non è possibile avviare una trattativa seria. Nel corso della telefonata, però, Abu Mazen avrebbe accusato Obama di avere deluso le aspettative palestinesi, non facendo nulla dopo che Netanyahu aveva rifiutato la richiesta di blocco totale degli insediamenti in Cisgiordania presentatagli dal neopresidente americano durante un incontro alla Casa Bianca il 18 maggio scorso. Infine, Abu Mazen avrebbe motivato la sua rinuncia anche con la delusione per il mancato accordo di pacificazione con Hamas che l’ha indotto a indire unilateralmente le elezioni politiche e presidenziali. Naturalmente la smentita può essere strumentale, così come la telefonata, e il tutto potrebbe essere una mossa tattica decisa da un Abu Mazen che effettivamente si trova in un cul de sac per spingere, finalmente, il presidente americano a una posizione netta e non ondivaga su trattative che paiono incagliate. Agli atti vi è il silenzio di ormai cinque mesi di Obama, che ha deciso di aprire la sua presidenza con una mossa discutibile, ma netta e coraggiosa nei confronti di Israele. Ma poi, di fronte al rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti, Obama non ha reagito, pure se ormai i sondaggi attestano che, per la prima volta nella storia, ben il 40 per cento della comunità ebraica americana è favorevole al blocco degli insediamenti. Da mesi Obama non prende nessuna iniziativa sul conflitto israelo-palestinese, al di fuori di un viaggio inutile e improduttivo dell’inviato per il medio oriente, George Mitchell, al Cairo, a Gerusalemme e a Damasco, che ha registrato formalmente l’impasse e ha suggellato una dimostrazione di indecisione di Washington anche su questo scenario. L’incertezza americana è stata rimarcata con sarcasmo anche dal leader di Hamas Khaled Meshaal, che da Damasco ha irriso Obama accusandolo di scarsa serietà: “E’ ora che l’Amministrazione americana dimostri serietà al mondo arabo e ai palestinesi circa la sua effettiva volontà di convincere Israele a ritirarsi sui confini del 1967 e porre fine all’occupazione. Se Obama non è riuscito a convincere gli israeliani a congelare gli insediamenti, chi li convincerà a riconoscere i diritti dei palestinesi su Gerusalemme e quelli per il ritorno dei profughi?”. Ora pare che Obama abbia deciso di inviare in Israele Hillary Clinton, segretario di stato, non si capisce ancora con quale mandato, ma intanto continuano ad aprirsi in campo palestinese gli spazi per chi progetta una nuova Intifada. Da settimane gruppi variegati di estremisti – di Hamas, di al Fatah, del Jihad islamico – inscenano manifestazioni violente sulla Spianata delle moschee, accusando alcuni gruppi di rabbini estremisti di volerla profanare. La denuncia della volontà degli ebrei di profanare con la loro presenza e le loro moschee la spianata di al Aqsa (dove pure sorgeva il Tempio ebraico) è un vecchio trucco usato a piene mani dal Gran Muftì di Gerusalemme nel 1919, nel 1926 e nel 1938 per innescare massacri e carneficine nell’allora Mandato britannico (identico alle denunce di profanazione del Corano da parte dei soldati americani che sta agitando la piazza di Kabul). E’ stato questo anche il pretesto per l’avvio dell’Intifada nel 2001, che iniziò prendendo a pretesto la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata, peraltro autorizzata dal servizio di sicurezza dell’Anp. Nel vuoto di iniziativa di Abu Mazen, nella delusione per una iniziativa contro gli insediamenti che Obama ha prima coraggiosamente avanzato, ma poi non ha difeso, trova dunque spazio anche in Fatah l’abitudinario ritorno al jihadismo che ha sempre caratterizzato il movimento palestinese del Gran Muftì e di Arafat e che Abu Mazen – unico leader palestinese apertamente contrario all’Intifada del 2001 – era finora riuscito a sconfiggere, almeno nel suo campo.
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