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La Stampa Rassegna Stampa
26.10.2009 Attentato terroristico suicida in Iraq
Cronache e analisi di Vittorio Emanuele Parsi, Asseel Kamal, Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 26 ottobre 2009
Pagina: 29
Autore: Vittorio Emanuele Parsi - Asseel Kamal - Francesco Semprini
Titolo: «I pericoli del fronte dimenticato - I cristiani perseguitati dimenticati da tutti - Baghdad, strage nella zona verde»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 26/10/2009, a pag. 1-29, l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " I pericoli del fronte dimenticato ", a pag.11 l'articolo di Asseel Kamal dal titolo "  I cristiani perseguitati dimenticati da tutti  ", a pag. 10, la cronaca di Francesco Semprini " Baghdad, strage nella zona verde ".  Ecco gli articoli:

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " I pericoli del fronte dimenticato "

 Vittorio Emanuele Parsi

Il mostruoso duplice attentato che ieri a Baghdad ha causato oltre 130 morti e 500 feriti può essere interpretato attraverso due chiavi di lettura complementari.
Un’interpretazione è più concentrata sulle dinamiche interne irachene, l’altra più attenta al dato regionale. Dal punto di vista interno, occorre sottolineare che a Baghdad la sicurezza è così peggiorata da arrivare vicino all’ordinaria contabilità del terrore precedente il «surge» del generale Petraeus. La tensione tra sciiti e sunniti è ormai oltre il livello di guardia, con sparizioni, omicidi e «piccoli attentati» pressoché quotidiani. Il governo di Al Maliki resta in una condizione di debolezza estrema e la prossimità della scadenza elettorale spinge tutti i suoi oppositori a impiegare qualunque mezzo per fare sì che l’appuntamento per le elezioni parlamentari (il 16 gennaio) coincida con il licenziamento di Al Maliki. Significativamente l’attentato di ieri ha preceduto di poche ore un importante incontro tra i diversi leader iracheni, che avrebbe dovuto arrivare a un accordo in extremis sulla riforma elettorale, scongiurando così il pericolo di un rinvio delle elezioni. La cronica litigiosità dei protagonisti del circuito politico ufficiale del Paese offre infatti enorme spazio di manovra sia agli irriducibili saddamisti sia, soprattutto, alle cellule di Al Qaeda, che si sono andate riorganizzando in seguito alla sostanziale diminuzione della pressione militare americana in Iraq, che non è stata compensata da un miglioramento delle capacità di intelligence e difensive del nuovo Stato iracheno. A quasi sette anni dall'invasione che portò al crollo del regime di Saddam Hussein, nonostante lo sforzo militare profuso e a prescindere dalle somme promesse e (talvolta) elargite per rimettere in piedi le istituzioni irachene, la situazione resta ampiamente insoddisfacente.
Se allarghiamo lo sguardo all'intera regione mediorientale, poi, è impossibile non constatare come nessuna delle crisi che si sono aperte o aggravate in conseguenza dell’11 settembre 2001 è stata avviata a soluzione. La strage di ieri ha costretto tutti a tornare a interrogarsi sul futuro dell’Iraq; ma le notizie che quotidianamente giungono dall’Afghanistan non sono certo più incoraggianti, con la prospettiva di un ballottaggio presidenziale che paralizzerà ulteriormente il già diviso esecutivo afghano, a meno che un’improbabile governo di unità nazionale non riesca a scongiurarlo. Anche a causa del protrarsi del conflitto afghano, la situazione pachistana rimane senza grandi prospettive positive di evoluzione e non pare neppure che la trattativa sul nucleare iraniano registri significativi progressi. In sostanza, mentre i nuovi fronti di tensione si moltiplicano, non si riesce a chiuderne nessuno di quelli aperti da più tempo. La crisi politico-istituzionale in Libano continua a peggiorare pericolosamente, e persino le modalità con cui si cerca di tamponarla (si pensi al relativo disallineamento del maronita Michel Aoun rispetto agli alleati sciiti di Hezbollah) potrebbe finire col surriscaldare il clima politico. A Gaza, infine, non sembra proprio che la presa di Hamas sulla stremata popolazione palestinese (ma chi ne parla più?) si stia allentando.
Il paradosso è che gli Stati Uniti non sono mai stati così pesantemente e direttamente presenti in Medio Oriente come negli ultimi nove anni, eppure non sono mai apparsi così lontani dall'assicurare una stabilità soddisfacente all’intera area. Era assai maggiore la capacità americana di condizionare l’ordine mediorientale quando questa era esercitata off shore - politicamente e militarmente, attraverso gli inviati speciali e le portaerei stazionate nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano - di quanto non sia oggi, che si può avvalere di divisioni corazzate e proconsoli. Se l’intervento politico-militare diretto non ha portato i frutti che gli Usa speravano, è però evidente che tornare semplicemente alla situazione precedente, ritirandosi dall’intero scacchiere, è di fatto impossibile. Allo stesso tempo l’America non può permettersi (e neppure l’Europa, per la verità) di abbandonare l’Afghanistan al suo destino, di lasciare che l’Iran raggiunga lo status di grande potenza regionale «in cambio di niente», o che l’Iraq precipiti in una situazione tipo Libano 1980. L'equazione «ritiro dall’Iraq e maggior coinvolgimento in Afghanistan», così elegantemente sostenuta da Barack Obama durante la campagna elettorale, efficace anche per la sua semplicità, potrebbe risultare semplicistica, così da costringere le teste d’uovo dell'amministrazione democratica a concepire una nuova vision americana per il Medio Oriente: diversa e, auspicabilmente, più efficace di quella partorita dai neocons di George W. Bush, ma non per questo meno articolata e meno ambiziosa.

La STAMPA - Asseel Kamal : " I cristiani perseguitati dimenticati da tutti "

Il numero dei cristiani in Iraq è precipitato da un milione e trecentomila unità, il dato precedente alla guerra lanciata dagli americani nel 2003, agli attuali 400 mila circa». A stimare la cifra che da sola racconta il tragico destino dei cristiani iracheni, è un esponente importante del Partito Cristiano, che sta partecipando attivamente alla vita politica del paese. È per questo suo ruolo che non vuol rivelare il suo nome: in compenso, promette di essere franco. «È in corso un esodo - spiega - molti cristiani sono scappati dalle città del centro e del Sud del Paese, per trovare rifugio nei villaggi protetti dalle montagne del Nord. Anche lì, però, non sono ancora al sicuro».
La tradizione vuole che sia stato l’apostolo Tommaso a portare il cristianesimo nell’attuale Iraq. Oggi i gruppi più numerosi di fedeli sono a Baghdad e nelle città nel Nord: Kirkuk, Irbil e Mosul, l'antica Ninive, ma la comunità si sta assottigliando presa nella morsa delle violenze di sciiti, sunniti e curdi.
L’esponente politico, cinquant’anni passati, è disperato. Non lo rallegra neppure la notizia della liberazione di Mahasan Bashir, un medico cristiano specializzato in ginecologia. Era stato rapito a Bartala, una località popolata da molti cristiani che si trova 27 chilometri ad Est di Mosul. Il dottore rapito è stato ritrovato in pessime condizioni, a 30 km a Nord della stessa Mosul.
«La sua bocca era tappata – continua il politico - le sue mani legate. La responsabilità è dei curdi. Noi cristiani siamo chiamati a essere parte integrante della comunità alla quale apparteniamo. Eppure nel Nord i curdi cercano di inglobarci nella loro regione autonoma, mentre nel centro gli sciiti vogliono costringerci ad abbandonare la nostra fede. Ma noi non cediamo: essere minacciati di morte non fa piacere a nessuno, ma siamo disposti a subire queste minacce pur di difendere la nostra identità religiosa».
«In particolare - prosegue – questi episodi si verificano nelle maggiori città cristiane della provincia di Ninive che all’epoca di Saddam Hussein era stata ribattezzata Al-Hamdania. E questo solo per suggerire che noi, i cristiani, eravamo comunque parte delle ben conosciute tribù arabe di Al-Hamdania, che vissero in queste zone durante l’Era degli Abbasidi». Non è solo il passato a preoccuparlo: «Fra i cristiani ci sono quasi tremila laureati, e circa 300-400 persone che hanno frequentato anche un master o un dottorato. Eppure, nelle scuole irachene, sono stati nominati appena tre insegnanti cristiani di fronte a un migliaio e mezzo di docenti musulmani. Questo dimostra che c’è una precisa volontà che mira alla nostra esclusione».
Dice il Metropolita Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del patriarcato caldeo di Baghdad: «I cristiani in Iraq sono diventati vittime di un piano internazionale, al quale partecipano vari gruppi sia locali che regionali. L’obiettivo di questo piano è quello di cacciare tutti i cristiani dal Medio Oriente. A causa delle oppressioni che subiamo in varie zone dell’Iraq, il numero di cristiani che fugge, abbandonando soldi, proprietà, fabbriche e ricordi, è cresciuto in modo esponenziale».
«Spesso questi fuggitivi - prosegue il vescovo - diventano vittime della malavita, del traffico delle donne. E in questo loro pellegrinaggio forzato sono costretti a cercare un nuovo Paese in cui vivere. Le reti della malavita internazionale si finanziano con la sofferenza dei cristiani che scappano dall’Iraq».
Rajà Poles, casalinga di 75 anni, racconta le sue angosce quotidiane: «La guerriglia ha ammazzato 16 cristiani e ha completamente distrutto alcune strade di Mosul che erano sotto il controllo dei curdi. La guerra psicologica è cominciata con brevi telefonate minacciose, ma ha avuto come effetto che nel giro di poche ore un migliaio e mezzo di famiglie hanno abbandonato la città. A quel punto i curdi ci hanno chiesto in modo chiaro e diretto di aiutarli affinché il Kurdistan potesse beneficiare dei certificati di possesso abbandonati da chi era fuggito».
Operazioni come queste sono accadute anche a Baghdad: quando una famiglia cristiana andava a lamentarsi dalla polizia, subito dopo riceveva le minacce di una gang criminale che la costringeva a scappare. «Non abbiamo un esercito, non abbiamo una legge che ci protegge. Inoltre i nostri figli non possono arruolarsi né nell’esercito né nella polizia – spiega Saleem Harba, parroco di una chiesa del centro di Baghdad -. Noi siamo le vere vittime della politica internazionale in Iraq e nessuno ci protegge».
Aggiunge: «Oltre venti cristiani sono stati imprigionati dalla Forze americane come terroristi solo perché erano tenuti in ostaggio proprio da un gruppo terrorista. E poi, sotto tortura, hanno confessato crimini che non avevano mai commesso. I cristiani sono in realtà inoffensivi, non abbiano mai commesso alcuna azione armata. Il problema è che questo non lo sa nessuno, neppure la Croce Rossa Internazionale».

La STAMPA - Francesco Semprini : " Baghdad, strage nella zona verde "

Un boato, una palla di fuoco e raffiche di mitragliatori tra i fumi dell’esplosione. È questa l’unica testimonianza visiva dell’attentato di ieri a Baghdad. Un breve filmato catturato dal telefonino di un passante nei pressi del palazzo di Giustizia e degli uffici del governo provinciale. Il video riprende solo la seconda delle due esplosioni provocate dalle autobombe che hanno causato 165 morti e 540 feriti. I vertici iracheni non hanno dubbi, l’obiettivo è creare un clima di tensione in vista delle elezioni politiche di gennaio, cruciali per il Paese. Così come pochi dubbi sembrano esserci sulla matrice. Sebbene in serata non fosse giunta ancora nessuna rivendicazione, sembra che dietro ci siano miliziani sunniti determinati a destabilizzare la leadership a maggioranza sciita.
Nonostante le violenze settarie siano diminuite molto negli ultimi 24 mesi, l’attentato, il peggiore degli ultimi due anni, dimostra come la sicurezza nel Paese sia ancora precaria, e rischi di peggiorare in vista del ritiro definitivo delle truppe americane previsto in agosto. «Gli autori di questi atti terroristici hanno dichiarato guerra allo Stato - spiega il presidente iracheno, Jalal Talabani -. Vogliono minare il processo politico in atto nel Paese e distruggere tutto ciò che abbiamo costruito negli ultimi sei anni».
È mattina a Baghdad e il centro cittadino, non lontano dalla «Green Zone», è trafficato da mezzi e persone che si dirigono al lavoro. Improvvisamente si sente un boato, poi fumo e grida, quindi le sirene della polizia e delle ambulanze. Segue un secondo boato, si rivive lo stesso drammatico copione. La strada dell’esplosione è a ridosso degli uffici del ministro di Giustizia e del Consiglio provinciale, chiusa per anni per motivi di sicurezza e riaperta alcuni mesi fa per dare un segnale di ritrovata fiducia ai cittadini. Ed è proprio per questo che i terroristi hanno scelto di posizionare le due auto cariche di esplosivo in un parcheggio antistante.
«I muri si sono sbriciolati in un attimo e noi siamo scappati alla cieca», racconta Yasmeen Afdhal, 24 anni, dipendente del Consiglio provinciale. Il bilancio appare da subito pesante: almeno 25 i dipendenti morti. L’ufficio è stato preso di mira perché gestisce servizi cruciali per la vita di tutti i giorni, la distribuzione delle razioni di cibo, del carburante, la gestione delle rete elettrica, la raccolta dell’immondizia e il controllo delle scuole. Ma l’attentato ha un ulteriore valore simbolico visto che vicino al luogo dell’esplosione si trova l’ambasciata americana, dove tre contractor della sicurezza sono rimasti feriti, e gli uffici del primo ministro Nuri Al Maliki, ancora in fase di ricostruzione dopo l’attacco dello scorso agosto.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, condanna con forza «i terribili attacchi contro il popolo iracheno» ed esprime nel corso di una conversazione telefonica con Talabani e al Maliki, le sue condoglianze «per le vittime, ribadendo l’impegno di restare al fianco degli iracheni». Questi attentati «volti a far fallire il progresso dell’Iraq, non hanno nulla a che fare con il coraggio e la resistenza del suo popolo, e con la determinazione a costruire istituzioni forti», prosegue Obama. «Gli Stati Uniti sono schierati a fianco del popolo e del governo iracheno come un amico stretto e un partner - conclude - Continueremo a lavorare insieme per assicurare sicurezza, dignità e giustizia».
Di atto intimidatorio si tratta quindi ancor più perché avvenuto a poche ore da un incontro tra i vertici del governo iracheno e i leader di partito, in vista di un accordo di massima sulle elezioni. Con 147 morti e circa 600 feriti si tratta dell’attentato peggiore per quanto riguarda Baghdad da quello dell’aprile 2007 quando un serie di attacchi dinamitardi contro gli sciiti provocarono 183 morti. Al bilancio pesante si aggiunge il giallo del cittadino iracheno sequestrato da alcuni uomini e riuscito a fuggire subito dopo le due esplosioni. L’uomo era stato prelevato e immobilizzato nel bagagliaio di un’automobile, ma il conducente è rimasto ferito e due suoi complici sono morti. Il prigioniero è riuscito così a dare l’allarme attirando l’attenzione di un agente che lo ha liberato.

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