L’imbattibile Walzer Howard Jacobson
Cargo Euro 19,50
Per descrivere l’universo narrativo dell’inglese Howard Jacobson i media britannici giocano spesso con paragoni americani. Se Philip Roth ha scelto la Newark della sua infanzia, come retroscena di “Pastorale Americana”, Jacobson impasta di yiddish “mescolato con il gergo dei mercati inglesi” la rievocazione della Manchester in cui è cresciuto. E lo fa prendendo di mira la sua famiglia chiassosa e ansiogena come nell’alleniano “Radio Days”. Eppure Jacobson – inedito in Italia fino al 2008, quando Cargo ha tradotto Kalooki Nights – è in quanto europeo, inglese ed ebreo, portatore di un’altra eredità culturale. Capace di farci sorridere mentre riflette sul peso della Shoah o sulla dinamica tra laicismo e attaccamento all’ebraismo, torna al pubblico italiano con il “libro più amato”, L’imbattibile Walzer (’99), storia d’un dodicenne che nella Manchester degli anni ’50 si scopre un talento per il ping pong. Diventerà un campione, “uscirà dal guscio” ma resterà impreparato ad affrontare l’età adulta fuori dal suo piccolo mondo. L’imbattibile Walzer è una sorta di proiezione della sua giovinezza. “E’ scrivendolo che ho capito quanto fosse narrativamente ricco l’ambiente della mia infanzia: un milieu di ebrei dell’Est scappati dai pogrom, piccoli commercianti che volevano i figli medici e avvocati, gente come mio padre: ambulante, non leggeva, non andava in sinagoga. E c’è un ragazzino ebreo che ha il dono del ping pong, passatempo non pericoloso che le mamme consentivano, una metafora della timidezza cronica dell’adolescenza”. La comunità che descrive non pare turbata dalla tragedia della Shoah. Come mai? “Il nostro, nei primi anni Cinquanta, era un microcosmo innocente. Ci eravamo lasciati dietro le spalle il fango dei villaggi russi, la paura di essere perseguitati. All’inizio non abbiamo voluto sapere cos’era accaduto agli ebrei d’Europa. Kalooki Nights è molto più nero e feroce perché mostra la presa di coscienza della mia generazione e il modo in cui l’abbiamo imposta ai nostri genitori”.
Lara Crino’
La Repubblica delle Donne