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Il Manifesto Rassegna Stampa
25.10.2009 Ecco i buoni propositi pacifisti di JStreet
ce li racconta Michelangelo Cocco sul quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 25 ottobre 2009
Pagina: 8
Autore: Michelangelo Cocco-Michele Giorgio
Titolo: «Una lobby, due stati-Aiuti alla diaspora ? No, aliyah d'emergenza»

Se qualcuno si era illuso sulla reale funzione di JStreet, la nuova lobby pacifista di ebrei americani, si legga il pezzo di Michelangelo Cocco sul MANIFESTO di oggi, 25/10/2009 a pag. 8, con il titolo " Una lobby, due stati ". Bene ha fatto l'ambasciatore d'Israele Michael Oren a rispedire al mittente l'invito a partecipare ai loro lavori. In Usa godono dell'appoggio dell'ex presidente Jimmy Carter, del finanziere Soros e di tutta quell'allegra brigata che più della difesa di Israele ha a cuore i propri interessi. Segue l'intervista di Michele Giorgio a un deputato israeliano definito " di estrema destra ", ma che a noi pare persino equilibrato, quando dichiara di essere disposto ad incontrare quelli di JStreet, tanto sono ebrei anche loro, solo che non hanno ancora capito che il destino è comune. Noi definiremmo quelli di JStreet " ebrei che sbagliano ", se ne sono visti parecchi negli ultimi millenni, poi, dopo aver visto i disastri che hanno combinato, regiolarmente si pentono, l'importante è sentire gli squilli della cavalleria che arriva in soccorso. Ecco, noi preferiamo pensare alla cavalleria. E non ci sembra cosa da poco.
Ecco i due articoli:

Michelangelo Cocco: " Una lobby, due stati"

Tra gli oltre mille partecipanti al congresso di «J Street» che si apre oggi aWashington spiccherà una poltrona vuota, quella riservata all’ambasciatore d’Israele negli Stati Uniti. Michael Oren ha comunicato in maniera per niente diplomatica ilmotivo della sua assenza: «Le preoccupazioni per alcune politiche dell’organizzazione che possono danneggiare gli interessi d’Israele». Un’accusa che riflette il nervosismo con cui la prima conferenza dell’unica lobby filo israeliana progressista è stata accolta negli ambienti della destra americana, ebraica e non. Nata un anno e mezzo fa, J Street è riuscita a federare una serie di associazioni della sinistra sionista (favorevole alla nascita di uno stato palestinese) ed entro mercoledì prossimo, quando sulmeeting calerà il sipario, attende la visita di 150 parlamentari, alcuni dei quali ha sostenuto durante la campagna elettorale che ha portato alla Casa Bianca Barack Obama. Già, Obama. La parte più attiva di quel 78% di ebrei americani che il 4 novembre scorso ha votato democratico aveva puntato su di lui per «promuovere una leadership americana forte e porre fine al conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese». Un anno dopo la fine dell’era Bush, l’iniziativa del presidenteUsa sembra spenta dall’intransigenza del governo Netanyahu e la soluzione dei due stati si allontana con l’avanzare della colonizzazione della Cisgiordania. Sebbene J Street si autodefinisca sionista, ha tuonato l’ex presidente del Congresso mondiale ebraico Isi Leibler, «il suo obiettivo principale è quello di fare pressione sul governo statunitense affinché usi "amore estremo" contro Israele, un eufemismo per chiedere che lo Stato ebraico faccia concessioni unilaterali a (stati) vicini impegnati nella sua distruzione». Ma che cosa è che tanto spaventa di questo gruppo che con 22 impiegati e un budget di 3milioni di dollari lancia - anche se quelli di J Street dichiarano che non è questo il loro obiettivo - la sfida all’American Israel public affairs committee (Aipac), il gruppo d’interessi (oltre 70milioni di dollari di cassa) che finora ha agito come unico rappresentante della comunità ebraica statunitense? «Altri gruppi pacifisti hanno provato negli anni scorsi a influenzare il dibattito sulla politica mediorientale dell’America, ma nessuno è riuscito a generare qualcosa di paragonabile alla potente combinazione di entusiasmo della base, agganci politici e attenzione mediatica suscitata da J Street», ha commentato Daniel Treiman su Forward, il settimanale di cultura ebraica che ha dedicato tanti articoli alla nuovo gruppo d’interesse. Phyllis Bennis sottolinea che «è la prima volta che un’associazione pacifista si caratterizza ufficialmente come lobby, ponendosi sullo stesso piano dell’Aipac». Ma l’esperta di Medio Oriente presso l’Institute for policy studies di Washington ci tiene a precisare che J Street cresce sul terreno reso fertile «da 325 organizzazioni di base che lavorano sotto l’ombrello della Campagna statunitense per la fine dell’occupazione israeliana, e da contributi come quello dato dall’ex presidente Carter col suo libro "Palestine, peace not apartheid"». Imassacri diGaza del dicembre scorso e il governo di ultra destra insediatosi in Israele hanno provocato quello che Bennis definisce «un grande cambiamento del discorso su Palestina e Israele negli Stati Uniti». Una virata che però non sarebbe stata possibile senza la nascita negli ultimi anni di associazioni ebraiche anti-occupazione – come Jewish voice for peace (www.jewishvoiceforpeace. org), Jews against the occupation (www.jatonyc.org) e tante altre che non si definiscono «per Israele, per la pace», come J Street, ma «pro diritti umani, pro uguaglianza e anti-occupazione ».Un fermento riassunto dalla copertina del numero in edicola del settimanale The Nation, che titola: «Gli ebrei americani ripensano Israele». Di fronte a questo movimento Obama e i suoi consiglieri si sono limitati a «chiedere» a Tel Aviv di sospendere la colonizzazione. Alla una prima richiesta di congelamento degli insediamenti Israele ha risposto picche. Poi Washington ha proposto uno stop parziale e lo Stato ebraico ha replicato ancora «no». Poi un blocco parziale e per un periodo limitato a cui Tel Aviv ha detto di nuovo di no. Infine un congelamento parziale che non includa Gerusalemme e solo per alcune settimane. Anche questo bocciato. «Obama non ha fatto alcuna pressione reale - sostiene Bennis - e ciò è stato evidenziato anche dai commentatori di destra. Fare pressione equivale a dire a Israele: l’intero processo di colonizzazione è illegale, se non lo fermate non vi daremo i 3 miliardi di dollari in aiuti promessi quest’anno, parte di un pacchetto di 30miliardi in dieci anni». Non solo, secondo Bennis la timidezza dell’Amministrazione «si fonda su un assunto sbagliato, perché superato: che cioèminacciare la sospensione degli aiuti o la fine dell’appoggio a Israele alle Nazioni Unite equivalga a un suicidio politico. Cosa che non è vera proprio perché il discorso negli Stati Uniti è cambiato profondamente». J Street è in grado d’interpretare questo «cambiamento di discorso»? I suoi leader hanno ottime credenziali sioniste. Jeremy Ben-Ami, il segretario, ha vissuto in Israele negli anni ’90 e i suoi nonni furono tra i fondatori di Tel Aviv. Hadar Susskind, direttore politico e strategico, è cresciuto in Israele e ha svolto il servizio militare in un’unità d’élite dell’esercito. Hanno protestato contro imassacri diGaza,masul destino dell’occupazione della Palestina sono vaghi. E ancora, quanti parlamentari statunitensi sono pronti ad ascoltare il discorso di J Street? «Il Congresso rappresenta la componente più difficile dell’intero processo – conclude Bennis –. Tra molti congressmen c’è frustrazione per l’influenza che la lobby pro occupazione (l’Aipac, ndr) ha sul Congresso da cui sono regolarmente minacciati: se non voti come vogliamo noi, finanzieremo un tuo avversario nel tuo distretto. Il problema è che oltre a non poterne più, hanno ancora paura. E J Street non è in grado ingaggiare con l’Aipac una competizione fino all’ultimo dollaro».

 Michele Giorgio: " Aiuti alla diaspora ? No, aliyah d'emergenza "

 Se il governo Netanyahu si tiene a distanza dalla conferenza di J Street, considerata non sufficientemente «filo israeliana », la destra estrema va oltre, accusandola di danneggiare gravemente gli interessi di Israele e di tutti gli ebrei. Nei giorni scorsi, quando imedia hanno raccontato i preparativi dell’iniziativa di J Street negli Stati Uniti, rappresentanti dei partiti ultranazionalisti e la radio dei coloni Arutz 7 hanno lanciato attacchi contro i pacifisti ebrei americani, accusandoli di mettere in pericolo la sicurezza del popolo ebraico. Tra i principali detrattori di J Street c’è il deputato Michael Ben Ari (Ichud Leumi), punto di riferimento del movimento dei coloni all’interno della Knesset (il parlamento israeliano). Lo abbiamo intervistato in una pausa dei lavori della sessione invernale della Camera. Perché J Street danneggerebbe gli interessi di Israele e degli ebrei? È evidente che J Street non ha a cuore gli interessi di Israele. Anzi, l’orientamento politico di questa organizzazione danneggia gravemente il popolo ebraico. I leader e i sostenitori di J Street sono legati ad elementi della sinistra in Israele e all’estero che non sono interessati a combattere i nemici del nostro paese ma, al contrario, ad arrecare danno agli ebrei. Queste persone non possono e non devono interferire nelle politiche di Israele. Vede, coloro che non vivono a Sderot o Ashkelon, dove cadono i razzi di Hamas, ma sono negli Stati Uniti a bere tranquillamente un buon caffè, non hanno il diritto di essere pacifisti a spese di Israele. Questi pacifisti nel migliore dei casi sono degli ingenui, nel peggiore favoriscono il nemico. Ma J Street afferma di agire proprio nell’interesse di Israele. A suo avviso questa e altre lobby come dovrebbero comportarsi? Dovrebbero avviare subito una massiccia aliyah (l’emigrazione degli ebrei verso Israele, ndr), in particolare dai paesi in via di sviluppo. Una aliyah d’emergenza, straordinaria, volta a rafforzare le fondamenta di Israele e, quindi, ad avere effetti concreti contro il gravissimo pericolo demografico (la crescita della popolazione palestinese, ndr) ormai alle nostre porte. Devono capire che è di questo che abbiamo bisogno, non di soldi. L’assistenza finanziaria a Israele è priva di significato e serve solo a mettere a posto la coscienza dei tanti e tanti ebrei che hanno scelto di rimanere nella diaspora. Negli ultimi mesi si è discusso molto del congelamento delle costruzioni nelle colonie ebraiche in Cisgiordania come base per un possibile accordo di pace con i palestinesi. Teme che J Street farà pressioni sull’Amministrazione affinché Obama cerchi di bloccare la colonizzazione ebraica? Malauguratamente nella storia del popolo ebraico non mancano i traditori e i calunniatori che superano ogni limite e fanno del loro meglio per colpire il popolo ebraico. Questi elementi talvolta hanno successo altre no. Riguardo ad Obama, quello che posso dire è che il presidente americano cerca di dare l’impressione di voler agire con lealtà ma in effetti lui e il suo staff esercitano ingiuste pressioni (su Israele, ndr). E la cosa più spiacevole è che alcuni dei suoi consiglieri e assistenti sono ebrei. Lei dice che questi «traditori» della causa di Israele talvolta hanno successo e altre volte no. Ipotizziamo che J Street riesca a persuadere Obama ad imporre al premier Netanyahu il blocco dell’espansione delle colonie ebraiche, in quel caso voi come rispondereste? Continueremmo con tutte le nostre capacità a rafforzare il controllo del popolo di Israele sulla sua storica terra. Questo è il sogno di generazioni e generazioni di ebrei. Netanyahu e Obama sono soltanto granellini di sabbia in questo processo storico frutto del volere di Dio. Ma lei li incontrerebbe i rappresentanti di J Street o pensa che sia più giusto boicottarli completamente? Li incontrerei, perché nonostante stiano aiutando i nemici di Israele, comunque sono degli ebrei e abbiamo un destino comune. Questa condizione mi impone di parlare anche a loro.

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