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Il Foglio Rassegna Stampa
22.10.2009 Come fa la guerra il premio Nobel per la pace
L'analisi di Christian Rocca

Testata: Il Foglio
Data: 22 ottobre 2009
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Obama fa la guerra di Rumsfeld»

Sul FOGLIO di oggi, 22/10/2009, a pag. I, Christian Rocca analizza la politica militare dell'amministrazione Obama in un pezzo dal titolo " Obama fa la guerra di Rumsfeld ". Ecco l'articolo:

 Donald Rumsfeld

Il gran dibattito americano di queste settimane è sulla guerra dei droni. Si discute di efficacia, legittimità e legalità del conflitto armato contro i combattenti talebani e i terroristi di al Qaida fatto con i micidiali aerei senza pilota, guidati a distanza da una base aeronautica in Nevada e capaci di colpire obiettivi militari, e tutto ciò che c’è intorno, da oltre settemila metri di altezza. L’utilizzo dei Predator e dei Reaper, velivoli prodotti dall’americana General Atomics Aeronautical Systems, è la nuova frontiera della guerra asimmetrica del XXI secolo, in particolare della prima fase dell’era Obama. Ogni giorno volano ininterrottamente sopra l’Iraq, l’Afghanistan e il confine con il Pakistan quasi quaranta di questi aerei americani con apertura alare di venti metri e la coda a forma di “V” rovesciata. I Predator sono più piccoli e più numerosi. I Reaper più grandi e meno diffusi. Ideati come aerei da ricognizione capaci di stare in volo per 24 ore di fila, dopo l’11 settembre i droni sono stati utilizzati da George W. Bush anche per lanciare missili o sganciare bombe su singoli obiettivi terroristici, per la prima volta in Yemen nel 2001, poi in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Pakistan. Nei primi nove mesi alla Casa Bianca, Barack Obama ha deciso di aumentare in modo esponenziale il numero di missioni aeree con i droni e ha autorizzato sul solo Pakistan, un paese alleato e non in guerra con gli Stati Uniti, quarantaquattro attacchi missilistici, più di quanti ne abbia fatti George W. Bush negli ultimi tre anni di presidenza. Obama, inoltre, ha dato il via libera a bombardamenti con droni su obiettivi di al Qaida anche fuori dal medio oriente, in Somalia in particolare, senza mai dare spiegazioni né riconoscerne ufficialmente l’uso. Nell’era del Nobel per la Pace alla Casa Bianca, i droni sono diventati uno strumento bellico decisivo, moderno e letale, anche se è stato immaginato per operazioni di spionaggio o contro avversari irregolari privi di batterie antiaeree, più che contro nemici dotati di sistemi di difesa complessi. Il Pentagono ne ha a disposizione meno di duecento e continua a ordinarne in quantità tali che la casa di produzione fatica a stargli dietro (l’Italia ne ha quattro, in ricognizione sui cieli di Herat, in Afghanistan). Le nuove versioni dei Predator e dei Reaper sono dotate di sistemi di autodifesa e sono in grado di evitare attacchi ostili, ma per quanto velivoli sofisticati e micidiali restano sempre un mezzo e non possono sostituire una strategia militare. Il timore di questi mesi, invece, è proprio che l’idea della guerra con i droni – semplice, apparentemente lontana, a basso costo – sia diventata la soluzione ideale per leader politici che non vogliono sporcarsi le mani, che preferiscono evitare coinvolgimenti diretti in complicati conflitti tribali e che pensano soprattutto a ridurre il rischio di perdite umane, perlomeno della propria parte. “La guerra con i droni è un’idea seducente”, ha scritto Peter Singer nel libro “Wired for war”, che parla della rivoluzione robotica nel mondo bellico, perché crea la percezione che la guerra possa essere a costo zero. C’è, inoltre, il problema dei costi economici, non solo umani, che la più tradizionale dottrina di “counterinsurgency” comporta, specie di questi tempi di crisi finanziaria e di bilanci pubblici in rosso. Secondo l’Economist ogni soldato in Afghanistan costa 250 mila dollari l’anno, mentre una forza leggera destinata a poche e mirate operazioni antiterrorismo sarebbe decisamente meno dispendiosa. Un caccia F16 costa più o meno il doppio di un drone di tipo Reaper (11 milioni di dollari) e molto di più di un Predator (4 milioni di dollari). I caccia, per sicurezza, volano in coppia, consumano l’iradiddio e hanno autonomia di un’ora. Un drone può fare lo stesso lavoro dei caccia e con lo stesso carburante sta in cielo per un giorno di fila. I risultati delle operazioni antiterrorismo con i droni di questi primi mesi di presidenza Obama – una mezza dozzina di leader talebani uccisi, più due dozzine di militanti di secondo livello, per un totale di quasi cinquecento vittime in quarantaquattro attacchi missilistici – sono confortanti e c’è chi a Washington sta realmente pensando di delegare l’incombenza della guerra al terrore alle operazioni segrete condotte con gli aerei teleguidati con un sofisticato joystick collegato ai computer in Nevada, invece che al più tradizionale dispiegamento di truppe sul territorio. L’idea che si sta studiando in queste ore alla Casa Bianca – già rimandata di “parecchie settimane”, ma forse potrebbe arrivare prima del ballottaggio presidenziale in Afghanistan del 7 novembre – è quella di riprendere il vecchio pallino della guerra leggera, limitata alle operazioni antiterrorismo e ad attacchi dall’alto con gli aerei senza pilota sui leader di al Qaida. I droni, dunque, sono a un passo dal diventare essi stessi strategia, non più una semplice arma tecnologica al servizio di un piano. Obama è molto tentato dal seguire il consiglio del suo vicepresidente Joe Biden, paradossalmente identico a quello della guerra “on the cheap”, al risparmio, di Donald Rumsfeld. Anche il primo segretario alla Difesa di George W. Bush, infatti, sosteneva la tesi dell’impronta militare leggera in territorio straniero, della minima presenza di soldati sia in Afghanistan sia in Iraq e dell’inutilità del “nation building”, ovverocivile dei paesi liberati dai marine. Rumsfeld, come ora Biden, consigliava il suo presidente di puntare sulla pianificazione militare high-tech, sulle operazioni clandestine dei corpi speciali antiterrorismo e di sfruttare la supremazia tecnologica americana, a cominciare dall’uso dei droni per individuare e colpire i centri operativi nemici. Il modello di guerra leggera di Rumsfeld, dopo un’agile e veloce vittoria militare sulle forze regolari governative talebane e saddamite, non è stato in grado di mantenere il controllo dei confini esterni e del territorio liberato. Alla lunga, l’impronta leggera ha consegnato intere zone dell’Afghanistan e dell’Iraq ai nemici, con la popolazione civile rimasta senza alternativa alle imposizioni locali dei talebani e dei guerriglieri di al Qaida. C’è voluto uno stravolgimento strategico – elaborato da un ristretto gruppo di analisti militari, guidato dal generale David Petraeus e adottato contro tutto e tutti dal presidente Bush – per sovvertire sul campo una situazione che era sfuggita di mano ai leader militari e civili di Washington. La strategia del “surge” di Petraeus consisteva proprio in una maggiore presenza militare sul territorio, in un diverso e migliore rapporto con la popolazione locale e nella strenua difesa, dopo la liberazione, delle città e dei villaggi per evitare il possibile ritorno degli islamisti e dei nostalgici del dittatore. La nuova strategia contro i rivoltosi ha funzionato “al di là di ogni rosea aspettativa”, ha detto l’inizialmente scettico, anzi decisamente contrario, Barack Obama. Così, sulla base di quel successo iracheno, è sembrato normale che, una volta entrato alla Casa Bianca, il nuovo presidente scegliesse come suo nuovo comandante delle operazioni in Afghanistan uno come Stanley McChrystal, il generale che per conto di Petraeus aveva svolto le azioni antiterrorismo in Iraq. McChrystal ha subito revisionato la strategia in corso in Afghanistan (“una guerra giusta”, secondo Obama) e ha chiesto al Pentagono e alla Casa Bianca mezzi, uomini e strumenti necessari ad applicare a Kabul lo stesso metodo che ha avuto successo a Baghdad. La ricetta McChrystal è chiara: per evitare la disfatta servono un governo afghano credibile e circa quarantamila uomini. Sarebbe anche il caso, ha detto McChrystal, di non esagerare con gli attacchi aerei perché provocano vittime civili e alienano ancora più la popolazione. Due approcci strategici diversi, quindi: guerra tradizionale più operazioni contro i combattenti talebani da una parte, e azioni mirate con i droni contro i terroristi di al Qaida dall’altra. La Casa Bianca non ha ancora deciso che cosa fare, un giorno sembra spingere per la soluzione McChrystal, un altro per l’impronta leggera, un altro ancora per una via di mezzo che rischia di non risolvere nulla e di provocare parecchi danni. Nelle more di questa lunga revisione della strategia afghana, a Washington si è scatenato il dibattito politico, militare, ma anche etico e strategico, sulla guerra dei droni. La prima questione è di tipo giuridico. Gli esperti si chiedono se gli attacchi contro cittadini di paesi non belligeranti siano legali o invece violino il diritto internazionale e le regole americane che, dai tempi della commissione Church e dello scandalo per gli otto tentativi della Cia di assassinare Fidel Castro, vietano la pratica degli assassinii mirati. Gli attacchi con i droni però sono legittimati da un parere legale del 1989 del dipartimento di stato in deroga a quelle regole: negare ai terroristi un rifugio sicuro nei paesi i cui governi non sono in grado o non vogliono controllare il territorio – si legge nel memo giuridico del dipartimento di stato – non viola il divieto di procedere a omicidi mirati firmato nel 1976 dal presidente Gerald Ford dopo la conclusione dei lavori della commissione Church. L’ultimo numero del New Yorker in edicola ha pubblicato una lunga inchiesta della giornalista investigativa Jane Mayer, autrice di formidabili scoop sul “lato oscuro” della guerra al terrorismo di Dick Cheney, che comincia a porre i primi seri dubbi sull’uso dei droni da parte di Obama. Mayer denuncia l’isolamento dell’opinione pubblica americana, “tagliata fuori dalla realtà dei bombardamenti in Pakistan” e messa nelle condizioni di non conoscere “né il numero dei morti né le conseguenze politiche e morali” dell’utilizzo smodato dei droni. Sono due i programmi dell’Amministrazione Obama che si servono dei droni, ha scritto la Mayer. Il primo è un programma militare che opera in Iraq e Afghanistan a sostegno delle truppe americane dislocate nel teatro di guerra. Il secondo è gestito dalla Cia, mira a uccidere i leader di al Qaida in giro per il mondo ed è segreto. Ufficialmente non se ne sa nulla, le operazioni non esistono e nessuno ne è responsabile, ma gli effetti dei raid più o meno mirati sui villaggi pachistani al confine con l’Afghanistan sono riportati sui giornali locali e, in sordina, perché distanti e senza copertura diretta dei giornalisti occidentali, anche su quelli americani. I gruppi pacifisti cominciano a rumoreggiare, a maggior ragione adesso che Obama ha vinto il Nobel per la Pace. I commentatori falchi sottolineano l’efficacia delle azioni antiterrorismo condotte in questi mesi con i droni, ma sono convinti che una guerra non possa essere vinta limitandosi a sparacchiare missili dall’alto, anche perché senza la presenza sul territorio di truppe e di agenti capaci di illuminare gli obiettivi militari da colpire non è affatto detto che le operazioni condotte con gli aerei teleguidati dal Nevada e senza supporto logistico possano avere uguale successo. Anche gli analisti meno muscolari criticano l’abuso obamiano dei droni, lo considerano altamente pericoloso e sostengono che alla fine i missili sparati dall’alto creino più problemi di quanti ne risolvano. “I droni uccidono più civili che ribelli”, si legge sull’influente blog superliberal Huffington Post che a settembre ha superato il Washington Post nella classifica dei siti di informazione con più lettori. I centri studi analizzano i dati e, a seconda di chi si ascolta, svelano che il rapporto di morti civili per ogni capo terrorista o talebano è troppo alto oppure tutto sommato accettabile, considerato che si tratta di una guerra. Il consulente militare australiano David Kilcullen, ascoltato anche dal Congresso, parla di cinquanta civili uccisi per ogni terrorista colpito e consiglia di fermare la guerra con i droni prima che sia troppo tardi, perché gli attacchi obamiani finiscono per unire, anziché separare, la popolazione civile pachistana e gli islamisti talebani. Un super esperto di cose militari come Bill Roggio, curatore del fondamentale blog The Long War Journal, sostiene invece che soltanto il dieci per cento dei caduti appartenga alla popolazione civile. Gli attacchi con i droni sono altamente impopolari in Pakistan e diventano formidabili volani di reclutamento per le forze islamiste, dicono. Gli studi di Peter Bergen della New American Foundation, think tank liberal, svelano però che gli attacchi con i droni sono popolari soltanto nelle zone del sud e del nord Waziristan, proprio quelle colpite dai missili americani. In generale puntare soltanto sulla tecnologia dei droni non è compatibile con una strategia di lungo periodo sul Pakistan. Il numero dei civili uccisi – intorno a mille negli ultimi tre anni, metà dei quali sotto l’egida di Obama – erode consenso e legittimità dei governi pachistano e afghano, alimentano il radicalismo e i rischi di golpe. I contrari all’utilizzo dei droni sottolineano che il pericolo di un golpe islamista in Pakistan, paese dotato di testate nucleari, è decisamente più grande della minaccia agli interessi nazionali americani rappresentata da un’organizzazione terroristica come al Qaida. Altri esperti però notano che, a causa dei missili sganciati dai droni, gli islamisti non soltanto sono impegnati a salvare la pelle, invece che a pianificare altri attacchi, ma stanno anche lasciando le zone di confine con il Pakistan spostandosi verso il centro del paese, a una manciata di chilometri da Islamabad. L’avvicinamento fisico del pericolo talebano, creato proprio dal governo di Islamabad come strumento di politica estera, sta convincendo i riluttanti leader pachistani a prendere le contromisure e a cominciare a combattere sul serio il mostro che gli si è rivoltato contro.

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