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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.10.2009 Obama ora dialoga pure col Sudan
Ma in campagna elettorale aveva promesso la linea dura contro al Bashir

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 ottobre 2009
Pagina: 17
Autore: Paolo Valentino - Massimo Alberizzi
Titolo: «Darfur, l’America dialoga con il Sudan - Stupri e rapimenti: nei campi profughi i 'diavoli a cavallo' fanno ancora paura»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/10/2009, a pag. 17, gli articoli di Paolo Valentino e Massimo Alberizzi titolati " Darfur, l’America dialoga con il Sudan  " e " Stupri e rapimenti: nei campi profughi i «diavoli a cavallo» fanno ancora paura ".

Paolo Valentino : " Darfur, l’America dialoga con il Sudan  "

 

WASHINGTON — In campa­gna elettorale, Barack Obama aveva promesso la linea dura contro il Sudan. E si era impegna­to a isolare il governo guidato da Omar al-Bashir, il presidente ac­cusato di crimini contro l'umani­tà, considerato dalla Corte Pena­le Internazionale responsabile del massacro di oltre 300 mila persone in Darfur.
Non più. Dopo lungo dibattito interno, l'Amministrazione ame­ricana ha deciso di optare per un approccio pragmatico, che se non adotta un tono del tutto con­ciliante verso Karthoum, preve­de tuttavia di dialogare col gover­no sudanese, usando «incentivi e pressioni» nel tentativo di con­vincerlo a cessare gli abusi dei di­ritti umani e onorare l'accordo di pace del 2005, firmato con i ribel­li della regione meridionale, ma fin qui ignorato e calpestato.
E' uno dei più radicali e clamo­rosi rovesciamenti di politica estera della Casa Bianca di Oba­ma. Ed è sicuramente destinato a suscitare critiche e polemiche, nel Congresso e soprattutto nelle organizzazioni per i diritti uma­ni, che già in passato avevano bollato ogni voce moderata co­me «appeasement» verso un go­verno repressivo, che non ha mai tenuto fede agli impegni.
La nuova politica verrà annun­ciata domani a Washington, in una conferenza stampa congiun­ta dal segretario di Stato Hillary Clinton e dall'Ambasciatrice alle Nazioni Unite, Susan Rice, alla presenza dell'inviato speciale del Presidente nel Paese africano, il generale in pensione Scott Gra­tion. Un evento volutamente di alto profilo politico, dimostra­zione quasi fisica di unità tra le diverse anime dell'Am­ministrazione: Rice e Gra­tion infatti hanno pole­mizzato vigorosamente nei mesi scorsi sulla li­nea da seguire, con l'in­viata all'Onu aperta­mente schierata per un approccio aggressivo e l'ex ufficiale favorevole a toni più concilianti: la fra­se favorita da quest'ultimo, quella che ha suscitato più polemiche, era quella di voler offrire «biscotti» e «bollini dora­ti » a Khartoum.
Secondo le anticipazioni del
Washington Post , la linea scelta dal presidente è un mix tipica­mente obamiano, dove Washington continuerà a definire «genocidio» quello in corso nel Dar­fur e non toglierà per il momento il Sudan dalla lista degli Stati conside­rati sponsor del terrori­smo. Ma allo stesso tem­po gli Usa abbandonano l'ipotesi di istituire una «no fly zone» e di preme­re per sanzioni ancora più dure al Consiglio di Sicurez­za, dando invece a Gration il via libera per un dialogo serrato (ma non direttamente con Bashir) nel quale la Casa Bianca è pronta a premiare i passi in avan­ti compiuti dal governo, ma an­che a punire ogni suo nuovo ri­fiuto.
Sarà Hillary Clinton a inqua­drare la nuova linea all'interno del più vasto sforzo dell'Ammini­strazione, di impegnare Paesi tra­dizionalmente ostili, nel tentati­vo di conseguire gli obiettivi poli­tici degli Stati Uniti. Che nel caso del Sudan sono in primo luogo tre: porre completamente fine ai massacri e agli abusi dei diritti umani, applicare l'accordo del 2005 tra il Nord musulmano e il Sud a maggioranza cristiana e animista, impedire che il Paese sia santuario delle reti internazio­nali del terrorismo islamico.

Massimo Alberizzi : " Stupri e rapimenti: nei campi profughi i «diavoli a cavallo» fanno ancora paura "

 al Bashir

EL FASHER (Darfur) — «Avete notizie sulle attività dei janjaweed nella regio­ne? ». La domanda è rivolta a Mohammed Yonis, il vicecapo della missione ibrida Onu-Unione Africana (Unamid) in Darfur, che si guarda in giro come alla ricerca di un aiuto. Passa qualche secondo intermi­nabile. Poi risponde: «Chi sono i janjawe­ed? ». Yonis, somalo-canadese, è cortese ma mostra imbarazzo nel rispondere a cer­te domande. Deve obbedire agli ordini confezionati da Onu e Ua: «Non provoca­re tensioni, tenere un basso profilo e non denunciare violenze e angherie». Compor­tamento obbligatorio anche per le Ong. Subito dopo il mandato di cattura per cri­mini di guerra e contro l’umanità spiccato il 4 marzo scorso dal tribunale penale in­ternazionale contro il presidente Omar al-Bashir, le autorità sudanesi hanno espulso dal Darfur 13 gruppi umanitari, con l’accusa di spionaggio. Ora tutti temo­no di essere cacciati o comunque messi nelle condizioni di non lavorare. Quindi nessuna denuncia, nessuna contestazio­ne. La linea di condotta decisa a New York è: «Lavorare con il governo». Nessuno quindi osa prendere posizioni che possa­no irritare le autorità di Khartoum. Que­sto ai livelli alti e ufficiali. Chi lavora sul campo invece è disposto a parlare. A testi­moniare che la guerra è sì scesa d’intensi­tà; che i raid dei janjaweed — quei «diavo­li a cavallo» che terrorizzavano le popola­zioni bruciando villaggi — sono sì meno numerosi, ma che le violazioni dei diritti umani continuano. Si tratterebbe soltanto di un cambio di strategia: «Perché finire sotto i riflettori della stampa internaziona­le o del Consiglio di sicurezza dell’Onu quando si può raggiungere l’obbiettivo di terrorizzare le popolazioni, stuprando le donne e rapendo i bambini?», spiega un osservatore.
In Darfur tutti sono intimiditi, hanno paura di parlare e lo fanno solo a patto che non venga citato né il loro nome, né quello dell’organizzazione cui appartengo­no. Le denunce sono pesanti: 150 stupri in due mesi (cioè più di uno al giorno) nei dintorni di Nyala, capitale del sud Darfur, reclutamenti forzati di bambini su tutto il territorio, boicottaggio degli aiuti umani­tari, rallentamenti con cavilli burocratici dei visti e dei permessi agli operatori.
Il congolese Rodolphe Adada, prima di lasciare l’incarico di capo della missione Unamid qualche settimana fa aveva com­mentato:
«La guerra in Darfur è finita. Re­stano solo problemi di sicurezza dovuti a banditismo diffuso». Un concetto ripetu­to il 9 ottobre davanti al Papa durante un’udienza in Vaticano ma che, secondo le testimonianze raccolte, non risponde al vero. Gli scontri non sono cessati del tut­to (qualche giorno fa è stato compiuto un massacro nel villaggio di Korma). «Il pro­blema — spiega Hassan Al Turabi, opposi­tore storico del presidente Omar al-Bashir e finito per questo in galera pa­recchie volte — è che il governo non ma­nifesta nessuna volontà di cambiare la sua politica verso le tribù darfuriane. Si riesce, anche se a fatica, a portare cibo e acqua nei campi profughi, ma non viene fatto nessun passo avanti verso la riconci­liazione. Anche il processo elettorale per arrivare alle presidenziali e alle legislative di aprile è fermo e non credo che le urne saranno mai aperte».
Il campo profughi di Zamzam alle porte di El Fasher ospita almeno centomila rifu­giati che ormai si sono organizzati come in un enorme villaggio. Durante una pri­ma visita, nel 2005, l’avevo trovato abita­to da fantasmi. Gente pelle e ossa che va­gava per le stradine con gli occhi sbarrati dal panico, ragazze che raccontavano il terrore degli stupri di massa. Ora non ci sono grandi problemi di cibo, molti sono attaccati al cellulare e fiorisce il piccolo commercio. Per visitarlo è meglio avere un soldato ruandese alle calcagna: «Abbia­mo paura che possono rapire gli occiden­tali — racconta il sergente Sunday —. Qui si possono incontrare parecchi crimina­li » .
Nella stamberga di frasche con il tetto ricoperto da un telone di plastica, Hasha, con in braccio il suo settimo figlio, raccon­ta: «Abbiamo cibo e acqua ma manca l’as­sistenza sanitaria. Ci sono due cliniche in tutto il campo». Nel villaggio assalito e bruciato dai janjaweed quattro anni fa, Hasha non aveva alcuna assistenza. Torne­resti laggiù? «Non ora. Resto qui dove co­munque mangio tutti i giorni».
«Ecco l’altro problema — spiega anco­ra Turabi —. Il governo non incentiva i rientri nei villaggi. Anzi cerca di trattene­re i profughi nei campi, per controllarli meglio. Se li facesse tornare a casa si rico­struirebbe la situazione del 2003 quando è scoppiata la guerra, combattuta a colpi
di terrore dai janjaweed».

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