Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/10/2009, a pag. 17, gli articoli di Paolo Valentino e Massimo Alberizzi titolati " Darfur, l’America dialoga con il Sudan " e " Stupri e rapimenti: nei campi profughi i «diavoli a cavallo» fanno ancora paura ".
Paolo Valentino : " Darfur, l’America dialoga con il Sudan "
WASHINGTON — In campagna elettorale, Barack Obama aveva promesso la linea dura contro il Sudan. E si era impegnato a isolare il governo guidato da Omar al-Bashir, il presidente accusato di crimini contro l'umanità, considerato dalla Corte Penale Internazionale responsabile del massacro di oltre 300 mila persone in Darfur.
Non più. Dopo lungo dibattito interno, l'Amministrazione americana ha deciso di optare per un approccio pragmatico, che se non adotta un tono del tutto conciliante verso Karthoum, prevede tuttavia di dialogare col governo sudanese, usando «incentivi e pressioni» nel tentativo di convincerlo a cessare gli abusi dei diritti umani e onorare l'accordo di pace del 2005, firmato con i ribelli della regione meridionale, ma fin qui ignorato e calpestato.
E' uno dei più radicali e clamorosi rovesciamenti di politica estera della Casa Bianca di Obama. Ed è sicuramente destinato a suscitare critiche e polemiche, nel Congresso e soprattutto nelle organizzazioni per i diritti umani, che già in passato avevano bollato ogni voce moderata come «appeasement» verso un governo repressivo, che non ha mai tenuto fede agli impegni.
La nuova politica verrà annunciata domani a Washington, in una conferenza stampa congiunta dal segretario di Stato Hillary Clinton e dall'Ambasciatrice alle Nazioni Unite, Susan Rice, alla presenza dell'inviato speciale del Presidente nel Paese africano, il generale in pensione Scott Gration. Un evento volutamente di alto profilo politico, dimostrazione quasi fisica di unità tra le diverse anime dell'Amministrazione: Rice e Gration infatti hanno polemizzato vigorosamente nei mesi scorsi sulla linea da seguire, con l'inviata all'Onu apertamente schierata per un approccio aggressivo e l'ex ufficiale favorevole a toni più concilianti: la frase favorita da quest'ultimo, quella che ha suscitato più polemiche, era quella di voler offrire «biscotti» e «bollini dorati » a Khartoum.
Secondo le anticipazioni del Washington Post , la linea scelta dal presidente è un mix tipicamente obamiano, dove Washington continuerà a definire «genocidio» quello in corso nel Darfur e non toglierà per il momento il Sudan dalla lista degli Stati considerati sponsor del terrorismo. Ma allo stesso tempo gli Usa abbandonano l'ipotesi di istituire una «no fly zone» e di premere per sanzioni ancora più dure al Consiglio di Sicurezza, dando invece a Gration il via libera per un dialogo serrato (ma non direttamente con Bashir) nel quale la Casa Bianca è pronta a premiare i passi in avanti compiuti dal governo, ma anche a punire ogni suo nuovo rifiuto.
Sarà Hillary Clinton a inquadrare la nuova linea all'interno del più vasto sforzo dell'Amministrazione, di impegnare Paesi tradizionalmente ostili, nel tentativo di conseguire gli obiettivi politici degli Stati Uniti. Che nel caso del Sudan sono in primo luogo tre: porre completamente fine ai massacri e agli abusi dei diritti umani, applicare l'accordo del 2005 tra il Nord musulmano e il Sud a maggioranza cristiana e animista, impedire che il Paese sia santuario delle reti internazionali del terrorismo islamico.
Massimo Alberizzi : " Stupri e rapimenti: nei campi profughi i «diavoli a cavallo» fanno ancora paura "
al Bashir
EL FASHER (Darfur) — «Avete notizie sulle attività dei janjaweed nella regione? ». La domanda è rivolta a Mohammed Yonis, il vicecapo della missione ibrida Onu-Unione Africana (Unamid) in Darfur, che si guarda in giro come alla ricerca di un aiuto. Passa qualche secondo interminabile. Poi risponde: «Chi sono i janjaweed? ». Yonis, somalo-canadese, è cortese ma mostra imbarazzo nel rispondere a certe domande. Deve obbedire agli ordini confezionati da Onu e Ua: «Non provocare tensioni, tenere un basso profilo e non denunciare violenze e angherie». Comportamento obbligatorio anche per le Ong. Subito dopo il mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità spiccato il 4 marzo scorso dal tribunale penale internazionale contro il presidente Omar al-Bashir, le autorità sudanesi hanno espulso dal Darfur 13 gruppi umanitari, con l’accusa di spionaggio. Ora tutti temono di essere cacciati o comunque messi nelle condizioni di non lavorare. Quindi nessuna denuncia, nessuna contestazione. La linea di condotta decisa a New York è: «Lavorare con il governo». Nessuno quindi osa prendere posizioni che possano irritare le autorità di Khartoum. Questo ai livelli alti e ufficiali. Chi lavora sul campo invece è disposto a parlare. A testimoniare che la guerra è sì scesa d’intensità; che i raid dei janjaweed — quei «diavoli a cavallo» che terrorizzavano le popolazioni bruciando villaggi — sono sì meno numerosi, ma che le violazioni dei diritti umani continuano. Si tratterebbe soltanto di un cambio di strategia: «Perché finire sotto i riflettori della stampa internazionale o del Consiglio di sicurezza dell’Onu quando si può raggiungere l’obbiettivo di terrorizzare le popolazioni, stuprando le donne e rapendo i bambini?», spiega un osservatore.
In Darfur tutti sono intimiditi, hanno paura di parlare e lo fanno solo a patto che non venga citato né il loro nome, né quello dell’organizzazione cui appartengono. Le denunce sono pesanti: 150 stupri in due mesi (cioè più di uno al giorno) nei dintorni di Nyala, capitale del sud Darfur, reclutamenti forzati di bambini su tutto il territorio, boicottaggio degli aiuti umanitari, rallentamenti con cavilli burocratici dei visti e dei permessi agli operatori.
Il congolese Rodolphe Adada, prima di lasciare l’incarico di capo della missione Unamid qualche settimana fa aveva commentato: «La guerra in Darfur è finita. Restano solo problemi di sicurezza dovuti a banditismo diffuso». Un concetto ripetuto il 9 ottobre davanti al Papa durante un’udienza in Vaticano ma che, secondo le testimonianze raccolte, non risponde al vero. Gli scontri non sono cessati del tutto (qualche giorno fa è stato compiuto un massacro nel villaggio di Korma). «Il problema — spiega Hassan Al Turabi, oppositore storico del presidente Omar al-Bashir e finito per questo in galera parecchie volte — è che il governo non manifesta nessuna volontà di cambiare la sua politica verso le tribù darfuriane. Si riesce, anche se a fatica, a portare cibo e acqua nei campi profughi, ma non viene fatto nessun passo avanti verso la riconciliazione. Anche il processo elettorale per arrivare alle presidenziali e alle legislative di aprile è fermo e non credo che le urne saranno mai aperte».
Il campo profughi di Zamzam alle porte di El Fasher ospita almeno centomila rifugiati che ormai si sono organizzati come in un enorme villaggio. Durante una prima visita, nel 2005, l’avevo trovato abitato da fantasmi. Gente pelle e ossa che vagava per le stradine con gli occhi sbarrati dal panico, ragazze che raccontavano il terrore degli stupri di massa. Ora non ci sono grandi problemi di cibo, molti sono attaccati al cellulare e fiorisce il piccolo commercio. Per visitarlo è meglio avere un soldato ruandese alle calcagna: «Abbiamo paura che possono rapire gli occidentali — racconta il sergente Sunday —. Qui si possono incontrare parecchi criminali » .
Nella stamberga di frasche con il tetto ricoperto da un telone di plastica, Hasha, con in braccio il suo settimo figlio, racconta: «Abbiamo cibo e acqua ma manca l’assistenza sanitaria. Ci sono due cliniche in tutto il campo». Nel villaggio assalito e bruciato dai janjaweed quattro anni fa, Hasha non aveva alcuna assistenza. Torneresti laggiù? «Non ora. Resto qui dove comunque mangio tutti i giorni».
«Ecco l’altro problema — spiega ancora Turabi —. Il governo non incentiva i rientri nei villaggi. Anzi cerca di trattenere i profughi nei campi, per controllarli meglio. Se li facesse tornare a casa si ricostruirebbe la situazione del 2003 quando è scoppiata la guerra, combattuta a colpi di terrore dai janjaweed».
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