Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/10/2009, a pag. 10, l'intervista di Fulvia Caprara a Samuel Maoz, regista di Lebanon, dal titolo " Il migliore era Clinton, Barack impari da lui ".
Non esprimiamo un parere su Lebanon, aspettiamo di vederlo nelle sale italiane.
Per quanto riguarda le sue affermazioni politiche vien da dirgli, anche se in milanese, "minusié fa el to mesté ". Se poi volesse occuparsi seriamente di politica, ricordiamo a Maoz che Israele è una libera democrazia, di partiti nuovi se ne possono fondare ogni giorno, Se uno ha un progetto politico per cercare il consenso degli elettori la strada è quella, e non passa per Venezia, ma da Gerusalemme. Ecco l'intervista:
Samuel Maoz
La storia di «Lebanon» inizia il 6 giugno del 1982, all’alba del giorno in cui il regista Samuel Maoz, inviato sul fronte in Libano, per la prima volta uccise un uomo. La ferita non è guarita e non guarirà mai, ma il film, un urlo lacerante contro l’assurdità della guerra, rafforza la speranza del cambiamento, l’idea che «nel mio Paese si possa vivere in pace, allevando figli cui offrire un futuro, come accade nel resto del mondo».
Secondo lei, la soluzione del conflitto in Medio Oriente è realmente possibile?
«La pace alla fine sarà inevitabile, i palestinesi poveri hanno una vita molto difficile. E gli israeliani non hanno bisogno di Gaza, potrebbero vivere molto meglio se i loro soldi non fossero utilizzati in gran parte per garantire la sicurezza e sostenere l’esercito. L’unica volta in cui la strada verso la pacificazione è apparsa davvero praticabile, l’assassinio di Rabin l’ha interrotta. Quell’episodio ha cambiato la storia».
Pensa che il presidente Obama potrà dare un contributo importante alla ripresa di quel cammino spezzato?
«Non so, il ruolo dell’intermediario è sempre il più difficile. Adesso, con il Nobel, Obama deve dimostrare di esserne all’altezza, forse il trucco era proprio questo, gli diamo il premio, vediamo come si comporta. Comunque per fare la pace in Medio Oriente il migliore era Clinton. Anzi, secondo me, sarebbe bene che Obama guardasse un po’ di filmati su Clinton per capire come comportarsi».
Sta scherzando?
«No, è la verità, in Israele Clinton resta il più amato e anche gli arabi lo preferiscono... forse c’entra la storia della Levinsky. In America hanno gridato allo scandalo, in Europa non è stato così. Anzi, quell’episodio fa parte del suo fascino, vederlo mentire senza battere ciglio, come un qualunque marito, gli ha fatto guadagnare simpatie».
I protagonisti di «Lebanon» sono quattro ragazzi poco più che ventenni mandati a morire dentro un carro armato. I soldati israeliani sono descritti come vittime designate e non in chiave aggressiva come è invece percepito in genere l’esercito d’Israele. Che reazioni si aspetta?
«So già che nel mio Paese, dove il film esce adesso, non è piaciuta l’idea che in “Lebanon” si veda un soldato israeliano che piange e vuole tornare a casa. In Libano, al contrario, il film non è gradito per i motivi opposti, lì vogliono che i nostri militari siano ritratti solo e sempre come assassini feroci».
Secondo lei, come stanno le cose?
«La nostra società è il frutto della mescolanza di atteggiamenti e modi di pensare diversi, legati alle tante nazionalità che la compongono. Il carattere israeliano è un po’ italiano, un po’ tedesco, e così via... Non credo che noi siamo più aggressivi di altri, a Tel Aviv si può stare al sicuro anche per strada di notte e, per fare un esempio, nella classifica mondiale della violenza domestica siamo all’ultimo posto. Il modo in cui veniamo percepiti deriva molto dalla tv e dall’uso che fa delle immagini. L’obiettivo delle televisioni è fare ascolti, se trovano la sequenza di un israeliano che picchia qualcuno, usano quella perché fa più effetto sullo spettatore».
«Lebanon» è un manifesto contro la guerra, che cosa voleva ottenere girandolo?
«Spero che serva ad aprire le menti della gente. Volevo far vedere che, durante un conflitto, persone normali, abituate a vivere secondo un codice etico, si trovano costrette a tradirlo. Paradossalmente hanno bisogno di uccidere e, dopo che l’avranno fatto, non saranno mai più quelle di prima. Per questo una società composta da reduci è una società lacerata, che vive sul dolore».
La foto di lei e della regista iraniana Shirin Neshat, tutti e due premiati e sorridenti sul palcoscenico della Mostra di Venezia, ha fatto il giro del mondo, come il simbolo di un’utopia realizzata. Che cosa ha provato in quel momento?
«Ero emozionatissimo. E’ vero, quella serata ha dimostrato che l’arte, anche se non risolve i problemi, può servire ad aprire le porte, ad abbattere gli ostacoli. Poche ore dopo mi hanno fatto rivedere quella foto, e il modo in cui sarebbe apparsa su molti giornali, con sopra il titolo “La pace è possibile”».
Che significato ha, nella sua vita, il successo di «Lebanon»?
«Dall’82, dopo l’esperienza in Libano, non ero mai più riuscito a piangere. Pensavo fosse il marchio indelebile della guerra. A Venezia, dopo la prima proiezione del film, quando mi sono girato verso la platea e ho visto la gente in piedi che continuava ad applaudire, senza fermarsi, per quindici minuti, ho sentito tornare le lacrime. Riacquistarle, per me, è stato il premio più importante che potessi ricevere».
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