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Il Giornale Rassegna Stampa
15.10.2009 L'Europa chiude alla Turchia
Non condivide le radici culturali dell'Occidente

Testata: Il Giornale
Data: 15 ottobre 2009
Pagina: 21
Autore: Alessandro M. Caprettini
Titolo: «L'Europa chiude alla Turchia»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 15/10/2009, a pag. 21, l'articolo di Alessandro M. Caprettini dal titolo " L'Europa chiude alla Turchia ". Un titolo, ci auguriamo, profetico.

Non ci siamo. Nonostante Egemen Bagis, ministro di Ankara per i rapporti con la Ue, parli di «rapporto positivo ed equilibrato» che farà da molla per ulteriori riforme, il capitolo dell’inserimento turco nella Ue è ancora deficitario. E non di poco. A dirlo con sufficiente chiarezza, il commissario finlandese all’allargamento Olli Rehn che ieri a Bruxelles - presentando il report annuale di sua competenza - ha aperto le porte ai croati (possibile ingresso nella Ue già dal 2012), ha fatto filtrare spiragli per altri paesi balcanici ex-jugoslavi, ma ha alzato nuove barricate nei confronti della Turchia. Frutto forse in parte maturato all’ombra dei ripetuti no di Sarkozy e Merkel, ma sicuramente condizionato da una serie di recenti «casi» che sono andati a cozzare con quelli che per l’Unione sono principi basilari per l’ammissione nella compagnia.
«Ci aspettiamo dalla Turchia riforme democratiche per migliorare i diritti delle minoranze e delle donne, nonchè i diritti sindacali e per migliorare la situazione della libertà di stampa e di espressione» ha spiegato il commissario. Che non si è mantenuto però sulle generali. Ha infatti citato il caso del gruppo editoriale Dogan Yahin Holding (Dyh) che notoriamente non ama il premier Tayyip Erdogan, al quale è stata affibbiata una multa di 395 milioni di euro per presunte irregolarità fiscali: «Se le sanzioni arrivano al fatturato annuo di una azienda - ha notato Rehn - rischiano di trasformarsi in una penalità politica più che essere una multa». E non va per niente bene che la Corte suprema turca, giusto qualche giorno fa, abbia dato il via libera ai cittadini per rivalersi (danni morali) nei confronti del Nobel della letteratura 2006 Oran Pamuk, il quale aveva osato rilevare come i turchi abbiano ucciso 30mila curdi e 1 milione di armeni «senza che nessuno oggi, tranne me, abbia il coraggio di parlarne in pubblico».
È corposa la disamina negativa della candidatura di Ankara all’ingresso nella Ue: si va dai matrimoni forzati alla chiusura di Youtube, dalle violenze domestiche alle cause intentate a Facebook e Google. Ma il dato di maggior rilievo resta ancora quello fatidico di Cipro. Nonostante le centinaia di sollecitazioni, il governo turco impedisce l’uso di porti e aeroporti ai greco-ciprioti come invece prevede il protocollo addizionale siglato a suo tempo da Ankara. E ogni tipo di accordo tra le parti, fin qui, non si è trovato in un eterno gioco di scaricabarile che lascia in piedi l’ultimo muro europeo, dopo la caduta di quello di Berlino.

Non tutto comunque è da respingere. Rehn ha giudicato positivi gli abboccamenti dei turchi con armeni e curdi, ha detto di aver apprezzato il lavorio di Ankara per la firma nel luglio scorso dell’accordo intergovernativo per la costruzione del gasdotto Nabucco. Ma sono ancora troppi i punti in sospeso. «La Turchia deve onorare i suoi impegni. C’è ancora molto da fare...», è la conclusione del commissario scelto da Barroso per gestire la politica dell’allargamento.
Diverse invece le valutazioni per la Croazia: dopo gli accordi intervenuti tra Zagabria e Lubiana per cancellare vecchie dispute territoriali, si prospetta un via libera all’integrazione europea. Gli esami finali già dopo la metà del 2010, mentre il semaforo potrebbe divenire verde nel 2012. Con l’eccezione dell’Islanda (cui la Ue potrebbe proporre entro Natale un negoziato lampo) più complesse appaiono le trattative per gli altri Paesi che hanno fatto domanda di inserimento: vanno bene le cose con la Macedonia anche se resta il problema del nome (i greci non intendono rinunciare a che Macedonia sia solo e unicamente la loro regione settentrionale) e altrettanto si può dire della Serbia (ma Belgrado deve fare di più nei confronti dei criminali di guerra). Montenegro, Albania e Bosnia hanno invece molta strada da fare - specie nella lotta alla criminalità e alla corruzione - così come il Kosovo dove «la stabilità resta fragile».

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