Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/10/2009, a pag. 45, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Che cosa fare con l'Iran. Le due strade possibili ".
Romano attribuisce alle amministrazioni Clinton e Bush la responsabilità per l'attuale situazione iraniana : "Vi sono stati anni, all’epoca del presidente Khatami, in cui l’America avrebbe potuto rafforzare le «colombe» raccogliendo i segnali di apertura che arrivavano in quel momento da Teheran. Ma Bill Clinton ha esitato e George W. Bush ha fortemente rafforzato il campo dei falchi collocando l’Iran, insieme all’Iraq e alla Corea del Nord, nel piccolo gruppo degli «Stati canaglia ». ". Il presidente Khatami non era una colomba. Il programma nucleare, lo ammette anche Romano nel corso della sua risposta, è condivisi sia da Ahmadinejad sia dai "riformisti". La politica aggressiva del regime iraniano non dipende dalle azioni e dalle dichiarazioni dei presidenti degli altri Stati. La dimostrazione è sotto ai nostri occhi. L'approccio della mano tesa di Obama non ha portato a nessun risultato soddisfacente. L'iran sta continuando la sua corsa al nucleare nonostante le proposte di dialogo arrivate dagli Usa.
Romano scrive : "Pur continuando a parlare di sanzioni il presidente americano sembra avere capito che questa seconda strada è molto pericolosa. E ha preferito imboccare quella del negoziato diretto. Con risultati che, a giudicare dall’incontro di Ginevra, sono per ora incoraggianti.". Non è ben chiaro quali siano i risultati incoraggianti. A Ginevra l'Iran ha ribadito di non essere intenzionato a fermare il suo programma. Il fatto che abbia permesso agli ispettori dell'AIEA di fare delle visite non è confortante. L'AIEA è stata già imbrogliata in passato dall'Iran. Per quanto riguarda la proposta di far arricchire l'uranio da un altro Paese, non comporta la soluzione del problema, ma solo il suo spostamento. Quando il Paese in questione, poi, è la Russia, che sostiene il diritto dell'Iran al nucleare e si oppone alle sanzioni, è impossibile restare tranquilli.
Ecco lettera e risposta:
Sergio Romano
La sua risposta a un lettore sull’intervento all’Onu di Ahmadinejad mi appare stupefacente soprattutto nel commento positivo su alcuni passaggi del discorso, questi, davvero, «infantili e demagogici». Comunque nelle sue frequenti difese della politica estera dell’Iran lei non ci ha mai spiegato con chiarezza che cosa pensi del regime degli Ayatollah e come andrebbe fronteggiata la loro, apparentemente intrattabile, volontà di potenza in un contesto geopolitico estremamente infiammabile.
Lucio Zagari
lzagari@augustea.com
Caro Zagari,
Non ho «difeso» la politica estera iraniana, ma ho cercato di spiegarla e soprattutto di mettere in evidenza gli argomenti di Teheran a cui occorre dare una risposta ragionevole. E vengo subito alle sue domande.
Il regime degli Ayatollah non è in crisi e continua ad avere il sostegno di una parte considerevole del Paese. Ma esistono all’interno del sistema politico forti tensioni: fra la società rurale e quella urbanizzata, fra i giovani formati nelle università e l’apparato politico-amministrativo delle istituzioni, fra coloro che desiderano adattare il regime agli imperativi della modernità e coloro che preferiscono conservarne la purezza e il rigore imprigionandolo all’interno di una fortezza assediata. I primi sostengono che il Paese deve uscire dall’isolamento e affrontare il dialogo diplomatico con gli Stati Uniti. I secondi diffidano di qualsiasi apertura. Ma gli uni e gli altri hanno sulla questione nucleare la stessa posizione. L’uranio e il suo arricchimento sono stati l’unico tema della recente campagna elettorale su cui Ahmadinejad e i suoi oppositori si somigliavano come gocce d’acqua.
Vi sono stati anni, all’epoca del presidente Khatami, in cui l’America avrebbe potuto rafforzare le «colombe» raccogliendo i segnali di apertura che arrivavano in quel momento da Teheran. Ma Bill Clinton ha esitato e George W. Bush ha fortemente rafforzato il campo dei falchi collocando l’Iran, insieme all’Iraq e alla Corea del Nord, nel piccolo gruppo degli «Stati canaglia ». Il discorso con cui il presidente americano ha adottato questa linea risale agli inizi del 2002, poco più di un anno prima dell’invasione dell’Iraq. Era inevitabile che molti iraniani si chiedessero in quel momento quando sarebbe arrivato il loro turno.
Che cosa fare oggi? È certamente possibile scegliere, come vorrebbero i falchi dell’Occidente, la linea dura: attizzare i fuochi dell’opposizione interna, pretendere che l’Iran rinunci al suo programma nucleare e adottare, se non dà risposte soddisfacenti, le «sanzioni paralizzanti» di cui ha parlato il segretario di Stato Hillary Clinton nelle scorse settimane. Ma gli ammonimenti e le minacce di una grande potenza non possono essere soltanto parole. Se il regime non verrà abbattuto dagli oppositori e l’Iran continuerà ad arricchire l’uranio, gli Stati Uniti dovranno prendere in esame, prima o dopo, la prospettiva del ricorso alle armi. Con quali effetti per la stabilità della regione e di quei Paesi (Libano, Siria, Palestina, Iraq, gli altri Stati del Golfo Persico) in cui l’Iran e l’Islam sciita hanno una forte presenza? Pur continuando a parlare di sanzioni il presidente americano sembra avere capito che questa seconda strada è molto pericolosa. E ha preferito imboccare quella del negoziato diretto. Con risultati che, a giudicare dall’incontro di Ginevra, sono per ora incoraggianti.
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