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Il Foglio Rassegna Stampa
15.10.2009 Perchè è giusto sanzionare l'Iran
L'analisi di Amy Rosenthal

Testata: Il Foglio
Data: 15 ottobre 2009
Pagina: 6
Autore: Amy Rosenthal
Titolo: «Se Obama vuole conquistare cuore e menti del mondo islamico, badi a non andare in Iran soltanto con le carote»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/10/2009, a pag. II, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Se Obama vuole conquistare cuore e menti del mondo islamico, badi a non andare in Iran soltanto con le carote " .

 Amy Rosenthal

Per vincere la lunga guerra al terrore ci vogliono proiettili ma anche, e soprattutto, idee. Progetti a lungo termine, e la volontà di portarli fino in fondo, anche se con il passare del tempo – e delle leadership politiche – si sfilaccia la motivazione iniziale, per quanto forte potesse essere. Ilan Berman, vicepresidente dell’American Foreign Policy Council, think tank con base a Washington, ha scritto il suo ultimo libro proprio per ricordare, rispiegare, rilanciare la motivazione iniziale della lotta al terrore. In “Winning the Long War: Retaking the Offensive Against Radical Islam” (Rowman&Littlefield, 2009), Berman conferma che l’Amministrazione Obama sta portando avanti le stesse politiche adottate dall’Amministrazione Bush, ma spesso – dice l’autore al Foglio – non ricorda che “il campo di battaglia non è soltanto quello militare, c’è quello ideologico, c’è quello economico, c’è quello intellettuale”. Berman è un grande esperto di questioni mediorientali e asiatiche, è stato un consulente della Cia e anche del dipartimento della Difesa americano, e cerca di fornire un quadro complessivo di tutti i dossier che giacciono sulla scrivania di Barack Obama. Prima di tutto, dice, è necessario riconoscere il nemico, presupposto quanto mai indispensabile in questi giorni in cui l’Amministrazione Obama sta definendo la strategia in Afghanistan: combattere solo al Qaida e non i talebani? Inviare più truppe o restare con il contingente attuale? Se non si definisce il nemico, è difficile rispondere a queste domande, che infatti stanno spaccando l’Amministrazione. “Siamo stati attaccati da al Qaida l’11 settembre e a lungo abbiamo pensato che la lotta contro al Qaida fosse la priorità – dice Berman – Non è così. Gli avversari sono molti di più, sono l’Iran e tutte le cellule legate alla rete del terrore”, cellule che stanno ovunque nel mondo e che, abbracciata la causa, poi si emancipano, fanno la loro guerra, spesso locale. Ci sono cellule solitarie e impazzite (come l’attacco a Milano a opera di un libico) e cellule strutturate e ben radicate, come le attività terroristiche nel Regno Unito. Come dice Berman, “tutta la politica è locale”, lo è per Obama che deve contrattare con i membri del Congresso e con le forze politiche che lo sostengono (molto più con loro che con gli avversari, è il paradosso della maggioranza schiacciante) ogni singola strategia, anche se riguarda paesi lontani, e questioni globalissime, che con il locale non c’entrano nulla. Lo è anche per le cellule terroristiche sparse per il mondo, che s’aggrappano alla causa locale per portare avanti il loro pezzetto di jihad. “E’ necessario mettere insieme tutti i pezzetti – dice Berman – e costruire così una grande strategia contro il terrore. Per certi versi, quel che succede in Iraq e Afghanistan è un contorno. Naturalmente le nostre truppe lì fanno un lavoro indispensabile, ma il contesto reale è la lotta per ottenere la fiducia, la lealtà, di un quinto della popolazione mondiale, e al Qaida e l’Iran questo lo hanno capito davvero bene”. E’ la famosa guerra per conquistare i cuori e le menti del mondo musulmano, che poi si è declinata in modi talmente diversi – e spesso non efficaci – da perdere il suo slancio inziale. “Non dobbiamo convincerli ad amarci, ci abbiamo già provato e non ha funzionato – continua Berman – Piuttosto dobbiamo spiegare che il modello che al Qaida e l’Iran offrono non è buono per loro. Se non ci impegniamo sul fronte delle idee, se lasciamo che siano soltanto gli estremisti a comunicare bene con i musulmani, la minaccia islamista diventerà sempre più grande”. L’approccio dovrebbe essere quello adottato nei confronti della Guerra fredda, “quando abbiamo messo in discussione la legittimità dei governi che ci erano ostili mostrando ai loro popoli che cosa si stavano perdendo stando sotto la cappa di quei regimi”. Oggi però non è così semplice, perché “abbiamo smantellato le infrastrutture che si occupavano di quella parte di strategia e si è persa la forza del messaggio sul nostro ruolo nel mondo e sul perché il mondo dovrebbe stare dalla nostra parte e non da quella dei nostri nemici”. E aggiunge Berman, non senza polemica: “Mandiamo in giro Britney Spears o Eminem, ma non sono sostituti dei valori americani o della Costituzione”. Bisognerebbe piuttosto “buttarsi nel mercato delle idee, ed essere convincenti”, ma questo l’America non lo sta facendo. Il ruolo fondamentale delle sanzioni Pesa certamente la percezione dell’Amministrazione Bush, che ha catalizzato antipatie e pregiudizi. Ma più ancora pesa il mancato impegno, che perdura tuttora, a investire nelle organizzazioni e nelle strutture che dovrebbero appunto veicolare il messaggio americano: l’Amministrazione Obama ha tagliato i fondi all’Iran Human Rights Documentation Center che stava portando a termine un’inchiesta su quel che è successo nelle strade di Teheran dopo le elezioni del 12 giugno. 2,7 milioni di dollari sospesi. Berman ricorda anche che Obama si è opposto allo stanziamento di 20 milioni di dollari per finanziare l’istruzione di base in Iraq, dopo che aveva ricordato nel suo noto discorso al Cairo quanto l’istruzione fosse importante nel mondo musulmano. “Non che l’attuale presidente si sia comportato in modo diverso rispetto a Bush – dice l’esperto – E’ un fallimento davvero bipartisan”. Però Condoleezza Rice, ex segretario di stato, si era battuta per stanziare 75 milioni di dollari per dare voce al popolo iraniano, e ora di quei fondi si è persa traccia. Certo, nel frattempo sono cambiate tante cose. E’ arrivata la stagione del dialogo diretto con il nemico, inaugurata da Obama sul fronte iraniano. Ma, come ha spiegato Berman anche in un articolo su Foreign Policy, “il rischio con Teheran è che utilizzi il dialogo con Washington come ha utilizzato quello con l’Europa: è un modo per prendere tempo e aggiungere forza al suo programma nucleare”. I fatti sembrano dare ragione a questa tesi: non c’è più coesione sulle sanzioni come era apparso alla fine di settembre, quando la Russia pareva avviata a una grande collaborazione con Obama. Alla politica del “bastone e la carota” sta rimanendo soltanto la carota. “L’engagement ha l’obiettivo di sospendere il programma nucleare – continua Berman – Ma questo programma vuole salvaguardare la sicurezza del regime contro minacce esterne e interne e aumentare il prestigio dell’Iran nella regione. Che cosa stiamo offrendo ai mullah di così attraente da forzarli ad abbandonare il loro progetto? Quali strumenti abbiamo a nostra disposizione per indurre un ripensamento?”. La risposta alla prima domanda è: non molto. La risposta alla seconda è: chissà. Ci sono le sanzioni che, secondo Berman, sono fondamentali per mantenere la strategia dell’engagement. Ma l’atteggiamento dovrebbe essere serio. Il balbettio dei russi sulla questione non agevola, e comunque ci sono i cinesi contrari a ogni forma di “ingerenza”, come la chiamano loro, nelle ambizioni dei diversi paesi. Ma c’è di più. “Circa quindici anni fa – ricorda Berman – il Congresso approvò una legge chiamata Iran-Libya Sanctions Act, che voleva limitare i fondi che l’Iran riceveva nel commercio internazionale per finanziare la sua corsa ad armi di distruzione di massa, il suo appoggio al terrorismo, il suo interferire nella questione israelo-palestinese. Il messaggio era: puoi fare affari con l’Iran, puoi fare affari con gli Stati Uniti, ma non puoi farli con entrambi. Bene, la legge è stata approvata quindici anni fa e non è stata applicata nemmeno una volta”. E’ difficile imporre una scelta del genere, e lo è ancora di più per Obama ora, che si trova in una situazione ancora più imbarazzante perché lui, il popolo iraniano, non l’ha sostenuto durante le proteste di giugno e anzi ora avvia colloqui con una leadership che il popolo non vuole riconoscere. E’ una trappola diplomatica parecchio pericolosa, certo, “ma non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono i leader del mondo libero a livello morale e quindi non è corretto che Obama, leader del mondo libero, rimanga zitto quando c’è un popolo che chiede la libertà”. La verità è che si dovrebbe avere una strategia complessiva che non dipenda dalle manfrine che il regime di Teheran fa alla comunità internazionale: “Dobbiamo lasciare sul tavolo l’opzione militare – dice Berman – Dobbiamo decidere un pacchetto di sanzioni e dobbiamo imporre al mondo una scelta sul regime di Teheran”. Dire: da che parte state voi? Ma la sensazione a Washington, e non solo, è un’altra, e cioè che “l’Amministrazione si comporti come se la Bomba sia ormai un dato acquisito”, come dice Berman, cioè che si sia passati dalla prevenzione al contenimento. E anche se questo non fosse del tutto vero, l’esperto ricorda che “quando scegli di non decidere hai già di fatto scelto, e in particolare hai scelto che l’Iran possa andare avanti con le sue ambizioni nucleari”. Che poi è proprio l’obiettivo della leadership di Teheran. Non ci sono soltanto i campi di battaglia L’atteggiamento nei confronti dell’Iran ha ripercussioni su tutti gli altri dossier, perché contribuisce a definire la strategia globale nei confronti del terrore, sul piano ideologico, militare ed economico. In particolare, ci sono ripercussoni sui rapporti con Israele, che certo “non stanno vivendo i loro giorni migliori”, dice Berman, perché “Obama sta contenendo Israele e dando ai palestinesi più spazio ideologico e maggiore liberà politica”. Non è la prima volta che questo accade, le relazioni tra Washington e Gerusalemme sono sempre state “un po’ su e un po’ giù, giù con Bush senior, su con Clinton e Bush jr, giù di nuovo con Obama. E’ un ciclo quasi naturale”. Ma oggi la minaccia è più grave, c’è una guerra globale al terrore in corso. “Ci sono conseguenze pericolose se i paesi del medio oriente pensano che ci sia davvero una rottura tra Israele e Stati Uniti. Gli elementi più radicali potrebbero trarne uno spunto per fare davvero qualcosa per riuscire ad avere un mondo senza Israele”.

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