Ahmadinejad contro i giornalisti che denunciano il regime E la Russia continua ad essere contraria alle sanzioni
Testata: Il Foglio Data: 14 ottobre 2009 Pagina: 3 Autore: La redazione del Foglio Titolo: «I conti di Obama non tornano - Ahmadinejad sta svuotando l’Iran dai giornalisti dissidenti»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/10/2009 a pag. 3, l'editoriale dal titolo " I conti di Obama non tornano ", l'articolo dal titolo " Ahmadinejad sta svuotando l’Iran dai giornalisti dissidenti ". Ecco gli articoli:
" I conti di Obama non tornano"
Lavrov, capo della diplomazia russa, è contrario alle sanzioni contro l'Iran
L’Iran non ha bisogno di pressioni, il dialogo è avviato, ci sono scadenze stabilite, ispettori che arriveranno e guarderanno, il clima di accordo è nell’aria, non vorrete rovinare tanta ritrovata armonia con le sanzioni? No, certo che no, aspettiamo ancora un po’, però non per sempre, facciamo fino a dicembre, perché poi qualcosa si dovrà pur fare, ci sono siti nucleari che spuntano in ogni parte del paese, persino l’Agenzia atomica dell’Onu dice che tutto è pronto per la Bomba. Sì va bene, ora vediamo che cosa si cava fuori dall’appuntamento del 19, a fine mese entreranno gli ispettori, e poi valuteremo, decideremo. Dai, va bene, dicembre. Questo è il canovaccio grezzo – la diplomazia si concede ghirigori che non ci sogneremmo mai di imitare – di quel che si sono detti ieri il capo della diplomazia russa Lavrov e la collega americana Clinton. Mosca non vuole andare avanti con un pacchetto di sanzioni a Teheran, come sembrava aver fatto capire a New York il presidente Medvedev, in quei giorni concitatissimi in cui lo scudo missilistico nell’Europa dell’est era saltato, l’Aiea aveva rivelato l’esistenza di un nuovo sito nucleare a Qom e s’era alzato un coro di condanne all’attivismo atomico di Teheran. Erano i giorni dell’Assemblea dell’Onu, la prima presieduta dal presidente Obama. Erano i giorni del G20 di Pittsburgh in cui si doveva dar mostra della grande collaborazione globale su tutti i fronti: economia, terrorismo, proliferazione, siamo tutti membri di una pacifica e serena famiglia. Erano i giorni in cui sull’altare dell’amicizia tra Mosca e Washington si sacrificavano le democrazie emergenti dell’Europa dell’est. Poi ci sono stati i colloqui di Ginevra, la mano tesa di Obama che usciva dalla lampada e diventava realtà, un incontro tra il negoziatore iraniano Jalili e il negoziatore americano Burns, due parole mentre gli altri del 5+1 si lanciavano sul buffet a base di pesce. E tutti a festeggiare il nuovo ordine mondiale, come se si fosse raggiunto chissà quale risultato: quante volte è successo in passato che Teheran mettesse due date in agenda per dare alla comunità internazionale qualcosa di cui parlare, una scadenza cui appendere le proprie speranze? Mosca non vuole le sanzioni, la Cina figurarsi, è lì che fa accordi petroliferi con il regime della Guinea che uccide 160 persone in piazza, stuprando donne e ammazzando bambini. I conti del Nobel per la pace Obama non tornano, intanto Teheran impicca un dissidente al giorno.
" Ahmadinejad sta svuotando l’Iran dai giornalisti dissidenti "
Roma. Il New York Times scriveva ieri che è in corso il più grande esodo di giornalisti iraniani dal 1979, quando l’ayatollah Khomeini cacciò dal paese o uccise decine di reporter bollati come “spie americane”. Dei cento quotidiani che testimoniarono la presa del potere dei mullah sciiti, soltanto una manciata sopravvisse alla “rivoluzione culturale” di Khomeini, che contemporaneamente fece esiliare e giustiziare seimila fra ricercatori e accademici antislamisti. Le università rimasero chiuse per quattro anni, il tempo di fare piazza pulita dell’educazione “occidentale”, procedere al cambiamento degli insegnanti e introdurre nuovi libri di testo, pieni d’odio verso le altre religioni, quella ebraica in particolare, e nei confronti degli Stati Uniti. Molti libri si aprivano con la frase di Khomeini “il vero leader è il ragazzo di dodici anni che cinge attorno a sé una granata e con essa si fa esplodere. Sarà costui a bere il vino puro del paradiso”. Dopo le elezioni dello scorso giugno, abbiamo assistito a una ondata spaventosa di purghe, persecuzioni e inquisizione nell’informazione iraniana. La traduttrice del quotidiano spagnolo El Mundo è rinchiusa da 52 giorni nel carcere di Evin, a Teheran, con l’accusa di “propaganda”. Fariba Pajooh ha 28 anni e ha lavorato come traduttrice per il quotidiano durante le contestate elezioni presidenziali, oltre che per l’agenzia riformista Iranian Labour News Agency. Ahmadinejad aveva giurato di farla pagare all’informazione, da lui definita “peggio della bomba nucleare”. Con Fariba in cella c’è anche il corrispondente del settimanale americano Newsweek, Maziar Bahari. Intanto l’ex candidato riformista alle presidenziali Mehdi Karrubi è stato messo sotto inchiesta per le sue denunce di stupri in carcere di alcuni degli arrestati nelle proteste post elettorali. Stupri confermati da testimonianze oculari dei dissidenti. Gli editor dei blog dell’opposizione, che hanno riportato le uccisioni, le torture e le violenze post elettorali, sono quasi tutti in fuga e le loro abitazioni sono state razziate o sequestrate (continuano a scrivere quelli di base all’estero). Mahmoud Shamsolvaezin, un veterano dell’informazione iraniana, parla di duemila giornalisti che hanno perso il lavoro dopo le elezioni. Javad Moghimi non ha potuto celebrare la copertina su Time magazine. La sua fotografia corredava l’analisi di Joe Klein dal titolo “Iran vs. Iran”. Attualmente Moghimi è in Turchia, protetto da un lasciapassare americano e diretto verso gli Stati Uniti. “Alcuni giornalisti sono stati arrestati, altri torturati, altri sono ‘scomparsi’”, ha detto Moghimi. “Sembra che alcune persone stiano provando a farci tornare ai tempi dell’Inquisizione”, ha appena affermato l’ex candidato presidenziale Hossein Mousavi. Nelle scorse settimane l’ayatollah Ali Khamenei aveva parlato della necessità di una “seconda Rivoluzione culturale”. Per tanti che sono fuggiti, ve ne sono decine rimasti dietro le sbarre. Le loro “confessioni” sono tutte uguali: “Bismillah, al rahman al rahim…Confesso di aver subito l’influenza della Bbc, di Radio Voice of America e di altri media stranieri”. La repressione della dissidenza iraniana è stata affidata a Saeed Mortasavi, il terribile pubblico ministero di Teheran che ha chiuso giornali, perseguitato scrittori e torturato intellettuali, che venne coinvolto nell’assassinio di una fotografa canadese e per questo noto come “the butchter of press”, il macellaio della stampa. A chi mette in dubbio i suoi metodi criminali, Mortasavi risponde: “Non ho bisogno della legge. Io sono la legge”. Morteza Alviri è stato arrestato in quanto giornalista vicino al candidato riformista sconfitto Mahdi Karroubi, ma soprattutto perché lavorava per Radio Farda. La stazione fa parte del gruppo Radio Free Europe, la celebre radio americana della dissidenza anticomunista che iniziò a trasmettere da un umile edificio all’aeroporto Oberwiesenfeld di Monaco, che veniva ascoltata in segreto da Lech Walesa e dai combattenti di Solidarnosc e che in Cecoslovacchia trasmetteva i discorsi di Ronald Reagan. In carcere c’è anche Massoud Bastani, direttore di Jomhouriat, il giornale on line vicino al candidato presidenziale Hossein Moussavi. Assieme a Bastani, arrestato a casa sua, anche la moglie incinta Abadi. Issa Sahar-Khiz è dietro le sbarre perché ha fondato l’Association of Iranian Journalists, mentre fra le donne c’è Bahman Ahmadi Omavi, che dirige l’Iranian Women’s Club, che monitora la condizione delle donne iraniane. I blogger e i giornalisti si trovano quasi tutti nel famigerato carcere di Evin gestito dalla “Vevak”, la polizia segreta iraniana, dove, negli anni Ottanta, migliaia di prigionieri politici furono torturati e giustiziati e dove la dissidente Zahra Kazemi è stata torturata a morte nel 2003. Il principale sospettato per la sua morte è proprio il signor procuratore, Saeed Mortasavi, oggi a capo della grande purga. Molti di loro sono sotto regime di “tortura bianca”. Consiste nello sbattere il prigioniero in una cella che non ha finestre, completamente bianca, come gli abiti dei prigionieri. Per cibo ricevono soltanto riso bianco e le guardie non emettono alcun rumore. E’ loro proibito parlare con chiunque. I redattori del rapporto delle Nazioni Unite del 2003 sulle condizioni di detenzione iraniane la definirono “una prigione nella prigione”. Nessuno sa cosa accada là dentro. Quel che si sa per certo è che senza le notizie, le fotografie, le denunce e i proclami di questi dissidenti, sarebbe impossibile venire a conoscenza dei crimini e dei progetti assassini del regime iraniano. Ispiratore di quest’ondata di morte e sottomissione culturale è l’ayatollah Mesbah-Yazdi, il più radicale dell’islam sciita nonché mentore di Ahmadinejad. Yazdi è celebre per aver liquidato i 22 milioni di iraniani che avevano eletto presidente Khatami come “un mucchio di straccioni che bevono acquavite”. Sempre sua è la massima secondo cui “chiunque metta in dubbio le fondamenta dell’islam deve essere immediatamente ucciso”.
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