Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/10/2009, a pag. 19, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " L’ultimo ebreo di Kabul. Whisky, Torà e ricordi ".
Zebulun Simentov, l'ultimo ebreo a Kabul
KABUL — Una versione ebraica della classica storiella del naufrago sull’isola deserta racconta di un rabbino particolarmente intraprendente. È solo, in mezzo al mare. Ma presto si organizza per pescare, raccogliere acqua piovana, coltiva persino la terra. Alla fine costruisce due sinagoghe. «Come mai due?», gli chiederanno incuriositi i salvatori, anni dopo. Risposta: «Perché nella seconda io non metterò mai piede».
A Kabul la sinagoga è solo una. Si trova in una via del centro, la cosiddetta Flowers Street. Un edificio fatiscente, il cortile invaso da macerie, i muri percorsi da crepe profonde, le finestre rotte. La sinagoga sta al secondo piano e nella stanzetta sul ballatoio vive Zebulun Simentov.
«L’ultimo ebreo di Kabul», lo definiscono i giornalisti locali e stranieri che occasionalmente vengono a trovarlo. La storiella del naufrago gli calza a pennello per il solo fatto che con Isaac Levy, fino alla sua morte nel 2005 il penultimo ebreo di Kabul, litigavano come cane e gatto. «Levy non era neppure ebreo, negli ultimi anni si era convertito all’Islam», farfuglia adesso Simentov, a testimonianza dei vecchi livori.
Un personaggio che sembra uscito da un classico di Dostoevskij, compresa la parodia degli stereotipi antisemiti. A chi lo va a intervistare chiede subito dollari in contanti, «non moneta afghana che non vale nulla», e come minimo due bottiglie di whisky. «Ma di marca, se possibile Johnnie Walker, lo trovi agli spacci della Nato», insiste. E aggiunge con tutti i reporter: «Tu guadagni da questa intervista. Perché non ci posso ricavare anch’io qualche cosa?».
Ama provocare, è sospettoso della sua ombra. Anche per visitare la sinagoga polverosa, con pochi e vecchi libri di preghiera ebraici accatastati in un armadio a muro, occorre promettere un’offerta. Ma non è difficile capire che Simentov recita una parte. Gli piace essere la macchietta di se stesso, sino a risultare simpatico. Barba incolta, pochi capelli unti e biancastri sotto la kippà nera, camicia coperta di macchie, ciabatte sfondate, passa i pomeriggi con gli amici afghani musulmani del periodo comunista a bere superalcolici e sgranocchiare pistacchi. Dice di osservare rigorosamente i dettami della Kasherut. «Uccido io stesso gli animali che mangio, soprattutto polli e rispetto le regole della macellazione religiosa », dice, indicando un coltellaccio sporco di sangue. Non sa l’ebraico, se non poche sbiascicate parole delle preghiere. Parla in dari. Su una finestrella ha appese alcune pagine di un giornale della comunità Lubavitch di New York. «Ogni tanto mi aiutano. Inviano qualche soldo e a volte scatole di matzot (il pane azzimo per celebrare le feste, ndr.). In cambio prego per loro».
Dovrebbe essere nato nel 1959. Cinquant’anni portati decisamente male. Ma aiuta dirgli che sta benissimo e sembra più giovane. Se lo si mette di buon umore il suo racconto diventa uno spaccato affascinante della storia della comunità ebraica afghana. Si narra sia antica di oltre 2.500 anni, che risalga ai tempi del primo esilio babilonese. «Allora i miei avi erano più di 40.000, tanti a Ghazni e nelle provincie occidentali. Me lo dicevano anche i nostri vecchi che custodivano il cimitero ebraico di Herat, vicino alla casa dove sono nato», ricorda. Nel 1951, tre anni dopo la nascita di Israele, la maggioranza dei circa 5.000 ebrei locali emigra. Nel 1969 sono rimasti meno di 300, per lo più a Kabul, dove ormai vive anche Simentov. L’ultima esodo arriva 10 anni dopo, con l’invasione sovietica. «Nel 1992, con l’inasprirsi della guerra civile tra milizie, eravamo rimasti in 10», continua. Lui possedeva un negozio di tappeti. «Commerciavo con tutto il mondo, ne vendevo tanti anche a Milano. È stato il mio ultimo vero lavoro», dice con nostalgia e senza nascondere le sue simpatie per il governo filocomunista del presidente Najibullah, più tardi castrato e ucciso dalle squadracce talebane, che ne appesero il cadavere insanguinato ad un palo nel centro di Kabul.
Lui comunque fugge in Tajikistan, dove sposa Leah, una ragazza della comunità ebraica locale. Hanno due figlie: Shoshanna e Rachel. La scelta di trasferirsi con la famiglia in Israele arriva nel 1998. Sembrerebbe il punto di arrivo, la fine delle sue peregrinazioni tra i capitoli più cruenti della storia dell’Afghanistan contemporaneo. Ma non è così. Simantov non si trova bene nella patria del sionismo realizzato. «Problemi personali. Mi mancava Kabul», si limita a commentare abbassando lo sguardo. Così, dopo solo due mesi, lascia la famiglia e torna in Afghanistan.
Solo? Non proprio. Il titolo di «ultimo ebreo di Kabul» se lo contende con Levy. I due non si possono letteralmente vedere. Litigano per la custodia di un volume della Torà e altri testi antichi centinaia d’anni. Si accusano a vicenda di essere «blasfemi e convertiti», di voler vendere in segreto lo stabile della sinagoga. Spesso i vicini devono intervenire per dividerli. È il periodo della folle dittatura teocratica talebana in nome dell’Islam più oltranzista. Per i due ebrei sarebbe meglio mantenere il profilo più basso possibile. Invece i loro alterchi sono di dominio pubblico. Sino a che Levy va dai talebani per denunciare il correligionario di voler «rubare la Torà». In un attimo intervengono le «squadre contro il vizio per la moralità». Li arrestano entrambi, li picchiano, li tengono in cella a pane ed acqua per un paio di settimane. Soprattutto sequestrano la Torà assieme a diversi altri libri. Non saranno mai più resi.
«Conosco il ladro. Al momento si trova ancora nelle celle di Guantánamo», dice oggi Simantov, senza rivelarne il nome. In ogni caso, neppure questo servirà a calmare il loro odio reciproco. Tanto che nel 2005, quando Levy ormai ottantenne muore a Kabul ed è sepolto in Israele, Simantov viene per qualche tempo sospettato dalla polizia di averlo avvelenato. Oggi è stato totalmente scagionato. «L’autopsia ha appurato che quello là è morto per problemi di circolazione», sottolinea.
I suoi timori sono invece per il futuro. «Guai se tornassero i talebani. Sono cattivi, fanatici. Sarebbe un male per tutti», afferma con un lampo di paura negli occhi. E che devono fare le forze Nato? «Restare. Combattere i talebani. Se partissero qui scoppierebbe subito la guerra civile e le milizie del Mullah Omar sarebbero a Kabul in poche ore. Ma soprattutto aiutino la crescita delle nostre forze di sicurezza nazionali. Ci vuole un forte esercito afghano e 80.000 poliziotti sono troppo pochi».
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