Obama ha scelto di rinunciare al ruolo egemone dell’America Analisi di Charles Krauthammer, con un intervento di Christian Rocca
Testata: Il Foglio Data: 13 ottobre 2009 Pagina: 5 Autore: Charles Krauthammer - Christian Rocca Titolo: «Le onde del declino - L’opinionista più influente e il dibattito sulla supremazia morale degli Stati Uniti»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/10/2009, a pag. I, l'analisi di Charles Krauthammer dal titolo " Le onde del declino ", l'articolo di Christian Rocca dal titolo " L’opinionista più influente e il dibattito sulla supremazia morale degli Stati Uniti ". Ecco i due articoli:
Charles Krauthammer : " Le onde del declino "
Isegnavento dei luoghi comuni stanno registrando una nuova raffica di angoscia per il presunto declino americano. Nuove teorie, vecchi slogan: eccessiva espansione imperiale; risveglio dell’Asia; il mondo post americano; forze inesorabili al di là del nostro controllo che provocano l’inevitabile umiliazione della potenza egemone del mondo. Sul versante opposto, si collocano invece quelle poche persone (come Josef Joffe in un saggio su Foreign Affairs) che rifiutano la moda e ribadiscono che l’America rimane la potenza indispensabile, osservando che le previsioni del declino sono cicliche, che l’ascesa della Cina (e magari dell’India) è la versione odierna del panico per il Giappone scoppiato alla fine degli anni Ottanta o del precedente pessimismo illustrato nel saggio “How Democracies Perish” di François Revel. Gli avversari della teoria del declino fanno notare che la paura della Cina è esagerata: si fonda sull’implausibile postulato di una crescita ininterrotta e infinita; non tiene conto di fattori esterni come l’inquinamento; e ignora le inevitabili conseguenze della politica demografica che impone un solo figlio per famiglia, con il risultato che la popolazione cinese diverrà vecchia prima ancora di diventare ricca. Come l’idea dell’ascesa della Cina è la proiezione automatica delle attuali tendenze economiche, così quella del declino dell’America è la proiezione dell’atteggiamento angosciato e pessimistico di un paese stanco di guerre e alle prese con una grave recessione economica. La mia posizione è molto chiara: non si può rispondere con un semplice sì o no alla domanda se l’America sia in declino. Entrambe queste risposte sono sbagliate, perché è sbagliato il postulato secondo cui esistono certe inevitabili e predeterminate traiettorie di sviluppo, conseguenza dell’azione di fattori esterni non controllabili. Nulla è inevitabile. Nulla è già stato scritto. Per l’America di oggi il declino non è un dato di fatto. Il declino è una scelta. Dopo due decenni di mondo unipolare, nato in conseguenza del crollo dell’Unione Sovietica, l’America si trova nella condizione di poter scegliere se conservare la propria supremazia o invece rinunciarvi. Il declino – o, viceversa, il mantenimento del predominio – è nelle nostre mani. Questo non vuol dire che il declino sia sempre soltanto una scelta. Il declino della Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale era stato previsto, ed era il declino di tutta l’Europa. Il corollario del collasso europeo è stata l’ascesa dell’America. Gli americani – che Lincoln una volta definì un “popolo quasi eletto” da Dio – non hanno salvato due volte l’Europa per affermarsi come potenza egemonica del mondo. Lo hanno fatto per difendere se stessi e la civiltà. La supremazia americana dopo la Seconda guerra mondiale non è stata cercata, e ancor meno lo è stata quella esercitata dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’America rappresenta un fenomeno geopolitico dei più rari: la potenza egemone casuale e, considerando la sua storia di isolazionismo e di assenza di istintive ambizioni imperialistiche, la potenza egemone riluttante (oggi, dopo quasi un decennio di strenue lotte successive agli attentati dell’11 settembre, più riluttante che mai). Il che mi conduce alla mia seconda tesi: posta di fronte alla scelta di conservare la propria supremazia o invece rinunciarvi gradualmente, ma consapevolmente e persino con sollievo, l’America sembra intenzionata a seguire la seconda opzione. L’establishment liberal che oggi domina negli Stati Uniti ha scelto la via del declino. L’attuale politica estera degli Stati Uniti è un perfetto esempio di atteggiamento rinunciatario. Inizia con la demolizione del fondamento morale della supremazia americana. A Strasburgo, al presidente Obama è stato domandato cosa pensasse dell’eccezionalismo americano. Ecco la sua risposta: “Credo nell’eccezionalismo americano, esattamente come, io penso, gli inglesi credono nell’eccezionalismo britannico e i greci in quello greco”. Risposta interessante. Se tutti sono eccezionali, allora non lo è nessuno. In effetti, mentre faceva il suo pellegrinaggio da Strasburgo a Praga, Ankara, Istanbul, Cairo e, infine, all’Assemblea generale dell’Onu, Obama ha tracciato il quadro di un’America piuttosto eccezionale – eccezionale per la sua colpevolezza morale e la sua superbia nei confronti di altri popoli e nazioni. In modo più o meno indiretto e subdolo, Obama ha accusato il proprio paese di arroganza, cinismo e derisione (verso l’Europa), e lo ha incolpato per maltrattamento delle popolazioni indigene, tortura, per il bombardamento di Hiroshima, per Guantanamo, e per mancanza di rispetto nei confronti del mondo musulmano. Sono accuse pesanti, la cui conseguenza è di minare alla base ogni pretesa morale dell’America all’esercizio della leadership mondiale, così come la fiducia morale di cui ogni nazione ha bisogno per giustificare la propria egemonia di fronte a se stessa e alle altre nazioni. Secondo la nuova dottrina, dopo aver rinunciato a svolgere la sua missione celeste, l’America, tornata all’umiltà, deve ora trovare una collocazione più modesta in mezzo alle nazioni del mondo, e non sopra di esse. Ma come si governa questo nuovo mondo? In che modo dovrebbe funzionare il sistema internazionale? Henry Kissinger una volta disse che gli unici modi per ottenere la pace sono l’egemonia o l’equilibrio tra le potenze. Ebbene, l’egemonia è stata scartata. Come ha dichiarato Obama nel suo discorso all’Onu, “nessuna nazione può o deve dominare altre nazioni”. Ma se l’egemonia è stata scartata, lo stesso vale anche per l’equilibrio tra le potenze: “Nessun equilibrio fra le potenze può reggere”. Il presidente ha poi criticato l’idea di elevare un gruppo di nazioni al di sopra delle altre. E ha proclamato che “le alleanze fondate sulle spaccature di una Guerra fredda ormai da tempo finita non hanno più alcun senso in un mondo interconnesso”. Che cosa significa questo per la Nato? O per la nostra alleanza con il Giappone e la Corea del sud? O persino con l’Unione europea? Sono assurdità. Ma non sono assurdità innocue. Sono il riflesso dell’idea che la sola autorità legittima nel sistema internazionale sia quella che emana dalla “comunità delle nazioni” nel suo complesso. Il che significa agire attraverso i suoi organi più universali come, si tratta sempre di una mia supposizione, l’Onu e le sue varie agenzie. Il che spiega perché Obama ha detto che coloro che mettono in dubbio “il carattere e gli obiettivi” del suo paese dovrebbero guardare ciò che questa nuova America – l’America liberal – ha fatto negli ultimi nove mesi; Obama ha citato come esempi il pagamento degli oneri dovuti all’Onu, varie iniziative su effimere dichiarazioni e accordi di ispirazione universalista e la partecipazione a organismi orwelliani delle Nazioni Unite, come lo Human Rights Council. Questi provvedimenti non sono passati inosservati all’estero. Il comitato per il Nobel si è sprecato in lodi per il drastico riorientamento della politica estera statunitense operato da Obama. L’idea della “comunità internazionale” che agisce attraverso l’Onu – una fantasia e una farsa – per imporre regole e mantenere la stabilità è una completa assurdità. Talmente assurda che ho il sospetto che sia una metafora per un mondo governato da una specie di accordo multipolare stabilito non fra stati-nazione ma fra gruppi di stati che agiscono per mezzo di organismi multilaterali, sia di carattere istituzionale (come l’Aiea) sia costituiti ad hoc (come il negoziato dei 5+1 con l’Iran). Comunque, l’egemonia (e specificamente l’egemonia americana) deve essere scartata. Questa rinuncia alla supremazia non è una novità assoluta. L’internazionalismo liberal, come è stato inteso e praticato dalle Amministrazioni Clinton negli anni Novanta (l’inizio dell’era unipolare), ha assunto un atteggiamento in qualche modo ambivalente sull’egemonia americana, sebbene accettasse che l’America fosse considerata la “nazione indispensabile”, per usare l’espressione di Madeleine Albright. L’internazionalismo liberal clintoniano ha cercato di limitare la potenza americana intrappolandola con una miriade di trattati e accordi e convenzioni internazionali. Questo deliberato intrappolamento dell’America all’interno di strutture burocratiche e normative aveva la propria giustificazione nell’idea che il potere corrompe e che i vincoli esterni ne avrebbero moderato l’arroganza e ne avrebbero fatto un ottimo membro della comunità internazionale. L’internazionalismo liberal oggi è diverso. Non è più di centrosinistra, ma decisamente spostato a sinistra. E si spinge ben oltre quello clintoniano nel suo disprezzo della supremazia americana. Secondo quello che può essere definito il New Liberalism, la rinuncia alla supremazia non è fondata sul timore che l’America sia fondamentalmente buona ma esposta alla corruzione del potere (la vecchia visione clintoniana), ma sulla convinzione che l’America sia così intrinsecamente corrotta e colpevole che non le si può lasciare il possesso della supremazia mondiale. Secondo il New Liberalism, non si tratta semplicemente della corruzione del potere, bensì del fatto che l’America stessa è geneticamente corrotta, come la sua storia dimostra. L’idea di un’unione imperfetta (il tema centrale del celebre discorso sulla questione razziale pronunciato da Obama a Philadelphia) è stata ribadita e ampliata in tutti i discorsi presidenziali sulla politica estera, soprattutto in quelli pronunciati all’estero. E visto che resta una nazione così imperfetta, l’America non è nella posizione per dettare i propri valori alle altre nazioni. Sulle strade di Teheran i dimostranti vengono uccisi soltanto perché chiedono la libertà, ma il nostro presidente non apre bocca a causa, come dichiara lui stesso, delle presunte intromissioni dell’America nelle vicende iraniane (il riferimento è, presumibilmente, al coinvolgimento nel colpo di stato del 1953). Le pecche americane sono talmente gravi da privarla dei presupposti morali per giustificare la propria egemonia. Questi principi del New Liberalism non sono soltanto teorici, ma hanno concrete conseguenze strategiche. Se ha svolto illegittimamente il ruolo di potenza egemone mondiale, è chiaro che per riottenere un posto legittimo nel sistema internazionale l’America deve riconquistare la propria autorità morale. E questo, sul piano operativo, si traduce in varie forme di ritiro strategico, soprattutto per quanto riguarda politiche bollate dalla macchia dell’unilateralismo o dell’eccezionalismo americano. Così, per esempio, non c’è più nessuna “guerra globale al terrorismo”. Il New Liberalism ribatterà che, nonostante la sua retorica, non sta dando risarcimenti morali, ma cerca un vantaggio strategico reale per gli Stati Uniti, sulla base del fatto che la ragione per cui non abbiamo ricevuto cooperazione da, diciamo, russi, iraniani, nordcoreani o persino dagli alleati europei, è data dall’arroganza americana, dall’unilateralismo, dall’essere sprezzanti. E così, se ci restringiamo, ci riposizioniamo e ci minimizziamo deliberatamente otterremo appoggio morale e porteremo il mondo a combattere le nostre battaglie. La scelta deliberata di una ritirata strategica per generare buoni sentimenti si basa sulla speranza ingenua di uno scambio reciproco in buona fede con gli stati canaglia. Non è per nulla sorprendente vedere che la teoria – la politica – non ha prodotto empiricamente alcun passo avanti. Ma questo non fermerà il New Liberalism perché l’obiettivo ultimo della sua politica estera è di rendere l’America meno egemone, meno arrogante, meno dominante. In una parola, questa politica estera è disegnata per produrre il declino americano, per rendere l’America essenzialmente una nazione tra le altre. E le politiche sul fronte interno sono perfettamente complementari. La politica interna, naturalmente, non è fatta per limitare il nostro potere all’estero. Ma quel che non c’è negli intenti, c’è negli effetti. Il declino sarà una conseguenza non intenzionale, ma potente, dell’ambizione del New Liberalism di spostare l’America dal suo tradizionale individualismo dinamico verso un più giusto ma statico modello di socialdemocrazia europea. La socialdemocrazia e i suoi frutti possono anche essere altamente desiderabili, ma hanno il loro prezzo, un prezzo che sarà riscosso dal dollaro, dal nostro primato nello spazio, nella difesa missilistica, nella sicurezza energetica, e nelle nostre capacità militari. Ma se una politica estera è fatta per rifiutare la nozione stessa di primato internazionale, una politica interna che si porti via le risorse per mantenere questo primato è perfettamente complementare. Di fatto, sono sinergiche. La rinuncia al primato all’estero fornisce le risorse aggiuntive per migliori prodotti sociali in casa. Per metterla nel linguaggio degli anni Novanta: l’espansione dell’agenda interna è nutrita da un dividendo di pace – con l’unico particolare che se la pace non c’è, è un dividendo di ritirata. Per gli europei è un dividendo di pace, perché noi forniamo loro la pace. Possono sostenere la socialdemocrazia senza sapersi difendere perché possono sempre dipendere dagli Stati Uniti. Quindi perché non farlo anche noi? Perché ciò che in Europa è decadenza è per noi pura negazione. L’Europa può mangiare, bere e sposarsi perché l’America la protegge. Ma per l’America è diverso. Se scegliamo la via facile, chi ci proteggerà? La tentazione di abdicare al ruolo di potenza egemone è sempre stata forte, in America. La tradizione interventista è recente. La tradizione isolazionista è molto più profonda. E non riguarda soltanto la sinistra. Storicamente è stata sostenuta dalla destra fino alla conversione Vandenberg. E rimane un istinto bipartisan. Vogliamo davvero vivere sotto una multipolarità non definita, non testata, instabile? O peggio ancora sotto l’internazionalismo del New Liberalism con le sue norme che magicamente si autodeterminano? In un’era alle soglie dell’iperproliferazione, è una ricetta per la catastrofe. I fardelli della potenza egemone sono pesanti. Dopo il sangue e i soldi spesi in seguito alle guerre post 11 settembre, l’America è pronta a sollevarsi di alcuni pesi scivolando soavemente verso l’abdicazione e il declino. Il declino è una scelta. Più che una scelta, è una tentazione. Come resistervi? Primo: accettando il ruolo di potenza egemone e rifiutando chi ne nega la sua essenziale bontà. C’è una ragione del fatto che siamo l’unica potenza egemone nella storia moderna a non avere immediatamente catalizzato la creazione di una grande alleanza avversaria, come è successo alla Francia napoleonica o alla Germania nazista. C’è una ragione per cui i paesi del Pacifico, del medio oriente, dell’Europa dell’est e dell’America latina accolgono la nostra presenza come bilanciere di potere e garante di libertà. E la ragione è semplice: siamo la potenza egemone più benevola che il mondo abbia mai visto. La resistenza al declino comincia dalla consapevolezza morale e dalla volontà. Mantenere il dominio non è soltanto una questione di volontà o di portafoglio. Non stiamo vivendo un declino economico, abbiamo l’economia più dinamica, innovativa e tecnologicamente avanzata del mondo, con la più alta produttività. Possiamo invertire la tendenza, se lo vogliamo. Ci sono cose da fare. Resistere al declino è una questione di strategia e di principio. Possiamo fornire gli strumenti per perpetrare il nostro ruolo nel mondo tenendo la nostra casa economica in ordine. Possiamo seguire il consiglio di Demostene quando gli fu chiesto che cosa fare contro il declino di Atene. “Vi darò la risposta più giusta e più vera: non fate quello che state facendo adesso”.
Christian Rocca : " L’opinionista più influente e il dibattito sulla supremazia morale degli Stati Uniti "
Christian Rocca
L’analisi di Charles Krauthammer è impietosa con la visione dell’America e del mondo di Barack Obama. Gran firma del Washington Post, ideologo del mondo neoconservatore, con un passato da consigliere scientifico di Jimmy Carter e da speech writer del vicepresidente Walter Mondale, nel 1990 Krauthammer ha coniato su Foreign Affairs il termine di “mondo unipolare” per descrivere il ruolo di unica potenza mondiale degli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Nel 2006 il Financial Times lo ha definito “il commentatore di politica estera più influente d’America” e nell’era di Obama si è ritagliato il ruolo di voce guida del mondo conservatore, così come negli anni scorsi il Nobel Paul Krugman aveva rappresentato l’opposizione alla Casa Bianca di Bush. Il saggio pubblicato in questa pagina, tradotto dal numero in edicola del settimanale Weekly Standard, è un adattamento della Wriston Lecture che Krauthammer ha tenuto al Manhattan Institute di New York il 5 ottobre. La tesi di Krauthammer, rafforzata dall’assegnazione di undici Nobel su tredici a cittadini americani, è questa: non si può dire che l’America sia in declino, non c’è una traiettoria predeterminata non c’è niente di inevitabile, il declino non è una condizione, semmai una scelta precisa, perché l’America è ancora in grado di decidere se abdicare al ruolo di superpotenza del mondo unipolare o se mantenere la sua posizione di dominio. Obama, sostiene Krauthammer, sta scegliendo la strada del declino dell’impero americano perché è un uomo politico cresciuto con l’idea che “l’America sia così intrinsecamente corrotta e colpevole che non le si può lasciare la supremazia mondiale”. Si tratta di una svolta radicale, quasi antagonista, rispetto all’impostazione del precedente presidente democratico, Bill Clinton, il quale non negava la natura di “nazione indispensabile” né la bontà intrinseca dell’esperimento americano, ma cercava di limitarne il potere “con una miriade di trattati e accordi e di convenzioni internazionali”, perché convinto che troppo potere l’avrebbe esposta alla corruzione. Con Obama, secondo Krauthammer, sparisce il timore clintoniano che il potere possa corrompere, ma arriva la certezza che l’America sia essa stessa “geneticamente corrotta”. E’ ancora troppo presto per dire se Obama abbia imboccato questa strada o no. I segnali dei primi nove mesi di presidenza sono contraddittori: da una parte la Casa Bianca ha mantenuto la struttura della guerra al terrorismo di Bush e non ha cambiato rotta né in Iraq né in Afghanistan, anzi ha esteso le operazioni belliche in Pakistan, ma dall’altra sembra farlo controvoglia, non manca di ripetere che il mondo è cambiato, non perde occasione per scusarsi per le colpe dell’America e di ricordare che gli Stati Uniti non possono fare tutto da soli. I sostenitori di Obama non sono d’accordo. Dicono che il presidente è semplicemente un uomo pragmatico, capace di governare in modo non ideologico e, in effetti, ci sono decine di discorsi obamiani in cui è centrale l’elemento dell’unicità americana, dell’America come ultima grande speranza per l’uomo. La tesi di Krauthammer è condivisa da un editoriale di sabato scorso del Wall Street Journal, uno dei bastioni del pensiero conservatore: “Obama vuole la fine dell’eccezionalismo americano, ovvero l’idea che i valori americani abbiano un’applicazione universale e debbano essere promossi senza remore ed essere difesi, se necessario, con la forza militare”.
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