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La Stampa Rassegna Stampa
11.10.2009 Contro gli Ajatollah e nostalgia per lo scià
L'analisi di Maurizio Molinari, Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 11 ottobre 2009
Pagina: 2
Autore: Maurizio Molinari, Francesca Paci
Titolo: «Italia strategica per il nuovo scudo anti Teheran- Attento presidente, rimpiangiamo lo scià»

Sulla STAMPA di oggi, 11/10/2009, a pag.2-3, due servizi con al centro la politica nucleare iraniana. Maurizio Molinari intervista lvo Daalder, ambasciatore Usa alla Nato, Francesca Paci gli esuli iraniani a Londra.

Maurizio Molinari: " Italia strategica per il nuovo scudo anti Teheran "

Roma,
C’è un ruolo per l’Italia nel nuovo sistema di difesa antimissile americano, niente dialogo privilegiato con Mosca a spese della Nato, le nazioni alleate non devono dipendere da singoli fornitori di energia e in Afghanistan servirà più impegno per addestrare le forze governative: così l’ambasciatore Usa alla Nato, Ivo Daalder, riassume le novità in arrivo da Bruxelles, parlando a margine del convegno di Magna Carta sulle nuove relazioni transatlantiche.
La nuova formulazione dello scudo antimissile redatta dal presidente Obama assegna più importanza al lato Sud della Nato, minacciato da missili iraniani a medio e corto raggio. Ciò significa che toccherà agli alleati occuparsene?
«Sì. Sono tre i motivi che hanno portato l’Amministrazione Obama a mutare l’approccio alla difesa antimissile. Primo: la reale minaccia iraniana viene dallo scenario del possibile lancio simultaneo di dozzine, se non centinaia, di missili a corto e medio raggio che già hanno. Secondo: disponiamo sulle navi Aegis di intercettori che sono già in grado di abbattere dei missili. Terzo: se le difese prima ipotizzate in Polonia e Repubblica Ceca puntavano a proteggere solo gli Stati Uniti, ora le nuove difese vogliono proteggere l’intero territorio atlantico. La conseguenza di questo è che tocca all'intera Nato occuparsi della difesa antimissile. Per questo stiamo iniziando le discussioni con gli alleati su come riuscirci».
E l’Italia che cosa può fare?
«Il sistema antimissile che proponiamo è molto flessibile. Ognuno può collaborare alla sua maniera. Per esempio, se l’Italia nel bel mezzo del Mediterraneo ha radar potenti, questi posso essere riadattati e collegati a un centro di comando e controllo comune per intercettare missili in arrivo. L’Italia inoltre è co-produttrice del sistema di difesa aereo Mead, che potrebbe anch’esso essere integrato al nuovo assetto Nato. Al fine di proteggere nonsolo il territorio italiano ma anche quello dell’intera Alleanza atlantica».
L’Italia tiene molto ad avere un rapporto privilegiato con la Russia. Quali sono le conseguenze per l’Alleanza?
«Il dialogo italiano con la Russia è profondo e importante e lo stesso vale per quelli di Germania e Stati Uniti. Ciò che dobbiamo fare è prendere questi dialoghi bilaterali e sostenerli, non sostituirli, con un consistente dialogo Nato-Russia. Il segretario generale Rasmussen considera una priorità collaborare con la Russia su difesa antimissile, controllo degli armamenti, antiterrorismo, Afghanistan e lotta ai narcos. Dobbiamo evitare che i solidi dialoghi bilaterali con la Russia avvengano a spese del dialogo fra la Nato e la Russia. Bisogna lavorare su entrambi i fronti: bilaterale e multilaterale. Anche se a volte Mosca ha la tentazione di preferire il legame bilaterale con l’Italia e la Germania».
Italia e Germania hanno solidi legami energetici con la Russia. È nell’interesse Nato una diversificazione?
«È nell’interesse della Nato che i singoli Paesi membri non dipendano dalle importazioni energetiche da una sola nazione. Nessun Paese ha interesse a legarsi a un’unica fonte di approvvigionamento. Diversificare le fonti è la garanzia migliore contro il rischio di subire possibili interruzioni per un qualsiasi evento, anche accidentale, russo, libico o norvegese. Per questo l’America sta riducendo la dipendenza dal gas canadese, cercando altri fornitori».
Quando Obama ha ricevuto Rasmussen alla Casa Bianca hanno parlato del nuovo concetto strategico. Potrebbe entrarvi anche l’energia?
«È una delle questioni da discutere. Sicurezza nazionale significa anche proteggere le infrastrutture. Come ha detto il senatore Richard Lugar, lo strangolamento energetico di una nazione riguarda la sua sicurezza. Ne dobbiamo parlare. Nel mondo in cui viviamo le minacce sono molteplici, non si tratta più delle classiche aggressioni ai territori ma anche di attacchi che possono essere portati via computer oppure sabotando le forniture energetiche. Sono considerazioni che possono rientrare nella riscrittura dell’articolo 5 della Nato sulla sicurezza collettiva».
Dentro l’Amministrazione Usa è in corso un confronto serrato sulla nuova strategia in Afghanistan. Che cosa devono aspettarsi gli alleati?
«A fine marzo Obama disse con chiarezza che l’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di “scompaginare, smantellare e sconfiggere Al Qaeda”, puntando a riuscirci con un triplice approccio: integrare gli aspetti civili e militari, considerare Afghanistan e Pakistan come un’unica regione, premere sull’Afghanistan affinché si assuma sempre maggiori responsabilità. Poi abbiamo avuto le elezioni e Obama ha detto che, una volta terminate, vi sarebbe stata una valutazione. Ora il problema nasce dal fatto che le elezioni non hanno ancora avuto una conclusione formale. Fino a quando non sapremo chi governerà l’Afghanistan, fare dei progressi sarà difficile».
Appare comunque chiaro che Obama auspicherà un maggiore impegno civile e l’addestramento di più truppe afghane. Che cosa vi aspettate dall’Italia?
«Gli Usa hanno raddoppiato la presenza civile in Afghanistan. Riguardo alle truppe afghane, l’obiettivo è di arrivare a 134 mila unità e 96.000 poliziotti non più nel 2014 ma nel 2010-2011. L’Italia sta già facendo molto, in particolare con l’impiego dei carabinieri per addestrare la polizia. Se ci sarà da fare di più, ognuna delle 42 nazioni dell’Isaf dovrà chiedersi che cosa può fare».

Francesca Paci: " Attento presidente, rimpiangiamo lo scià "

 Reza Palhavi

Non c’è pace al quinto piano dell’Egton Wing di Great Portland Street, dove quasi un anno fa la Bbc ha cominciato a trasmettere il notiziario in farsi che gli ayatollah temono più dell’embargo internazionale. Da quando le elezioni di giugno hanno portato alla ribalta i riformisti, i 140 giornalisti della redazione trascorrono ore a raccogliere le voci della protesta. «Per il momento non abbiamo ancora e-mail a sufficienza per valutare l’umore della gente», spiega Farnaz Ghazizadeh, giovane giornalista fuggita a Londra il 14 dicembre 2003 con il marito e collega Sina Motallebi, un dissidente ben noto alla polizia iraniana. Destreggiarsi tra informazione e controinformazione nella repubblica islamica è sempre più difficile, nota l’editorialista Kasra Naji, autore di una biografia di Ahmadinejad. che gli è costata l’addio alla madrepatria. Ma il messaggio del regime è chiaro: «Non sappiamo molto degli arrestati se non che rischiano la morte per dimostrare che accade a chi dice no. Il governo si batte all’ultimo sangue per mantenere potere».
L’onda verde è lunga abbastanza da raggiungere quotidianamente Londra, dove vivono oltre 30 mila iraniani. «La sentenza è un test per sondare la reazione del Paese e del mondo» osserva il blogger Potkin Azarmehr, 45 anni, in esilio dal 1980. Per questo si è abbattuta su sedicenti militanti di sigle estremiste: «Associare gli imputati a gruppi impopolari in Iran, come alcune frange monarchiche, serve a capire se anche stavolta il popolo resterà muto come quando Khomeini uccideva gli avversari spacciandoli per nemici della rivoluzione». Solo che i riformisti conoscono bene la famosa poesia del pastore protestante tedesco Martin Niemöller: «Il movimento è maturato e non aspetterà che vengano a prendere gli zingari, gli ebrei, gli omosessuali, i comunisti. I leader principali, come il giornalista Babak Dad, si sono schierati dalla parte dei condannati», anche se appartengono a ambigue cellule monarchiche o ai mujaheddin del popolo: se pagano per i dimostranti i dimostranti sono con loro.
«Ahmadinejad, apri gli occhi. Negli ultimi mesi milioni di iraniani hanno dichiarato in mille modi che non ti vogliono», scrive sul suo blog inglese Arash Hejazi, il medico che soccorse Neda morente, la giovane diventata il simbolo della piazza, e da allora vive in Gran Bretagna. Racconta Saeed Kamali Dehghan, corrispondente del Guardian a Teheran, che «nonostante il governo abbia perseguito i dissidenti, gli iraniani continuano a inventare nuove proteste, dagli adesivi verdi ai volantini da stampare online». E chissà che la presenza di qualche simbolo monarchico non sia stato un campanello d’allarme, azzarda l’imprenditrice Nizzanim L.: «I riformisti sono in prigione ma non vengono condannati, per ora. Colpire i nostalgici invece, parlare agli oppositori perché intendano i supporter dell’unico vero simbolo che, assai più d’un partito avversario, mette in discussione la teocrazia». L’onda porta sempre a riva frammenti di passato.

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