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La Stampa Rassegna Stampa
10.10.2009 Ungheria, a processo dopo settant'anni il boia di Novi Sad
La cronaca di Bruno Ventavoli

Testata: La Stampa
Data: 10 ottobre 2009
Pagina: 18
Autore: Bruno Ventavoli
Titolo: «Settant'anni dopo l'Unigheria processa il boia di Novi Sad»

Sulla STAMPA di oggi, 10/10/2009, a pag.18, con il titolo " Settant'anni dopo l'Unigheria processa il boia di Novi Sad", Bruno Ventavoli racconta la storia di Sandor Kepiro. Interessante il fatto che in Ungheria ci sia un governo di centro-destra, e solo oggi si riaprono i conti con il passato fascista. Ecco l'articolo:

Sandor Kepiro, ieri e oggi

Per il centro Wiesenthal era uno dei dieci criminali di guerra più pericolosi ancora in vita. E in libertà. Ma ora, a 95 anni, Sándor Képíró potrebbe essere chiamato a rispondere delle atrocità commesse durante il secondo conflitto. Un giudice del tribunale di Budapest ha autorizzato la Procura ad avviare un’inchiesta sull’ex ufficiale della gendarmeria ungherese che nel 1942 partecipò al massacro di cittadini serbi ed ebrei a Novi Sad. Il presunto colpevole nega tutto. E cita a suo favore un vecchio processo che già lo scagionò nel ‘44. Ma intanto una delle più sanguinose pagine della storia ungherese si riapre. Curiosamente, proprio nel momento in cui il Paese ha svoltato a destra, e vorrebbe ridiscutere le ingiustizie subite dopo la frantumazione della Monarchia dualistica e la dolorosa revisione dei confini nazionali.
Quella carneficina in riva al Danubio, quei «Giorni freddi», sono stati più volte raccontati ai tempi socialismo reale da film e romanzi diventando il simbolo non solo dell’insondabile orrore dell’animo umano, ma anche dell’odio etnico che la politica e le frontiere possono scatenare. L’attuale Novi Sad si chiamava Újvidék ai tempi in cui la regione circostante, la Bacska, aveva fatto parte per secoli del regno d’Ungheria. Lì sono nati scrittori e personaggi fondamentali per la storia nazionale. E migliaia di uomini comuni che vedevano in Budapest la capitale amministrativa, ma nella multiforme congerie etnica un modo naturale di vivere. Lì, nelle famiglie, nelle amicizie, nelle osterie, si incrociavano lingue e sangue. Si era geneticamente poliglotti e spontaneamente portati a pregare Dio secondo fedi diverse. Dopo la disfatta austroungarica nella prima guerra mondiale la regione venne assegnata alla Jugoslavia. E iniziò quel balletto di revanscismi che insanguinò per decenni l’Europa centrale.
L’Ungheria fascista di Horthy, alleata di Hitler, tornò in possesso delle terre perdute. Nel gennaio 1942, per rappresaglia contro le azioni dei partigiani slavi, soldati e gendarmi ungheresi compirono un orrendo massacro. In capo a qualche giorno di macelleria furono uccise 3400 persone, 2500 serbi (alcuni attivisti comunisti, ma soprattutto cittadini comuni, comprese donne, vecchi, bambini), e qualche centinaio di ebrei. Lo scrittore Danilo Kis vide da vicino l’efferatezza, e la raccontò in «Homo poeticus» (Adelphi). Era fanciullo, e un giorno - ricorda - la soldataglia magiara cominciò a segnare sulle case stelle di David e altri simboli, per facilitare la «razzia». Le vittime furono fucilate sommariamente, i corpi buttati nel Danubio aprendo fori nel ghiaccio, perché in quel periodo dell’anno il fiume non è blu come canta il valzer. Il padre di Kis scampò al massacro solo perché i buchi erano troppo ostruiti di cadaveri (poi finì ad Auschwitz).
Dato che nelle ere di violenza i ruoli di vittime e di carnefici si ribaltano facilmente, quando la seconda guerra mondiale volse al termine, centinaia di civili ungheresi pagarono il prezzo delle vendette serbe. Non pagarono, o pagarono pochissimo, invece, i responsabili materiali in divisa del massacro. Sándor Képíró in qualche modo la fece franca, come tanti volonterosi carnefici che sono riusciti a sfuggire alla giustizia umana, trincerandosi dietro l’alibi di ordini da eseguire. La sinfonia è la solita: nei tempi violenti la colonna sonora delle bombe è troppo fragorosa per poter ascoltare le voci della coscienza. Képíró finì sotto inchiesta in più occasioni. Lui dice di essere stato assolto, il centro Wiesenthal sostiene il contrario: fu condannato per le atrocità gratuite commesse insieme ad altri 14 commilitoni, ma non scontò mai la pena.
Quando la guerra finì, e l’Ungheria divenne rossa, Képíró fuggì dai russi in Argentina, terra accogliente per molti profughi dei fascismi europei crollati. In Sudamerica, si trasformò in operaio tessile, imparò a confezionare con le proprie mani delicati maglioni, si formò anche una famiglia, e mise al mondo due figli. Nel 1996 è tornato nella patria ungarica, non più comunista. E per anni è stato titolare d’un’esistenza anonima, banale. Finché - dice - «il centro Wiesenthal ha organizzato una conferenza stampa, in spregio ai miei diritti personali, davanti a casa mia, accusandomi di crimini di guerra». Il passato, che più volte l’aveva inseguito inutilmente, s’è rifatto vivo clamoroso. Képíró, in attesa del giudice, si proclama innocente: «Non ho mai preso parte a azioni criminali contro gli ebrei né a deportazioni». E per far capire dove batte il suo cuore indignato aggiunge: «Per dieci anni ho vissuto tranquillo, nessuno mi ha mai disturbato, poi nella sinagoga davanti a casa mia hanno costruito false insinuazioni. E ora sono vittima di accuse prive di fondamento».

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direttore@lastampa.it

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