Robert Redeker, costretto da una fatwa a vivere da profugo politico Un articolo di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 06 ottobre 2009 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Un clandestino s’aggira in Francia, Redeker alle prese con la fatwa»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/10/2009, a pag. 2, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Un clandestino s’aggira in Francia, Redeker alle prese con la fatwa".
Robert Redeker
Roma. “Un profugo politico che conduce una vita da clandestino, ecco quel che sono”. Sulla prestigiosa rivista di Bernard-Henri Lévy, “La règle du jeu”, il filosofo e scrittore francese Robert Redeker racconta la propria cattività umana e intellettuale a tre anni dalla fatwa di morte seguita a un celebre articolo sul Figaro: “Di fronte all’intimidazione islamista, l’occidente che deve fare?”. Quindici pagine che illuminano la condizione della libertà di parola in Europa. “Che Allah invii un leone a decapitarlo”, recitava la fatwa contro di lui. Una rete islamista mise le sue fotografie su Internet, assieme al telefono e all’indirizzo di casa. Un mandato di morte. Conferenze e corsi annullati, casa in vendita, il funerale del padre in anonimato e il matrimonio della figlia organizzato dalla polizia. In quell’articolo Redeker, redattore della rivista sartriana “Les temps modernes”, scrisse che “l’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo”. Da quel momento questo mite uomo di lettere che crede nella libertà di espressione e che liberamente si è espresso è stato costretto a vivere in clandestinità. L’unico sostegno gli è arrivato dall’allora candidato presidenziale Nicolas Sarkozy e da intellettuali mosche bianche come Claude Lanzmann. Redeker continua a scrivere regolarmente sul Figaro e altre testate, ma in Francia non è una cause célèbre (si è mobilitata molta più gente per il cantante uxoricida Bertrand Cantant e il terrorista pluriomicida Cesare Battisti). E’ in tutta Europa però, da Madrid a Copenaghen, che Redeker è invitato a tenere conferenze e riverito per quel che ha scritto. “La mia posta la recupero ogni giorno molto lontano dal mio domicilio”, racconta al Foglio Redeker. “Non ho contatti con la gente del cantone dove ho scelto di abitare. I vicini mi sono sconosciuti e ne ignoro perfino il nome. La polizia sorveglia casa mia. Per evitare le sale d’attesa, un medico di fiducia viene da me. Un’amica mi taglia i capelli. Gli amici sono diventati rari. Trascorro la settimana senza vedere nessuno. Il mio sguardo sugli uomini non è più lo stesso. Lo abita la malinconia”. In questi tre anni sono state molte le aggressioni come quella all’uscita da un supermercato. “Sei Robert Redeker, hai insultato l’islam”, gli gridò un islamista delle banlieue. “Sei protetto, altrimenti finiresti male. Facho, facho…”. Fascista. Fascista. “I miei giorni sono quelli di un obiettivo”, ci dice Redeker. “Condivido questa sorte con gente dell’altro lato dei Pirenei minacciata dagli squadroni della morte dell’Eta. Il terrore è a prima vista psicologico: indurire il cuore e l’intelligenza, paralizzare la mano che scrive”. La fatwa si inserisce nella storia della Francia che è una guerra tra la politica e il religioso. “Il filosofo epicureo Vanini venne messo a morte a Tolosa, la mia città. Una regione intera, la Linguadoca, subì una guerra spaventosa, la crociata contro gli Albigesi. E poi l’intolleranza cattolica verso il protestantesimo, i crimini della Rivoluzione contro i sacerdoti e i massacri in Vandea. E’ questo cuore della Francia, il luogo dove tutti i suoi vasi convergono, a toccare la mia trasformazione in obiettivo, un cuore ‘nodo di vipere’ per utilizzare un sintagma di François Mauriac”. Peggio della minaccia fisica di tipo jihadista, è forse la riprobazione collettiva suscitata dal suo articolo nell’opinione pubblica dominante. “Il mio linciaggio per contumacia si riprodusse in numerose sale di professori e corsi di ricreazione. Quando sento porsi su di me lo sguardo di quelli che Bernanos avrebbe chiamato ‘benpensanti’, un senso di colpa e di angoscia mi stringono la gola. Da adolescente la Spagna di Franco e il Cile di Pinochet erano ai miei occhi ingenui l’oppressione che non poteva essere che di stato. Ma questa è un’oppressione di tipo nuovo. Generalmente i clandestini vivono nell’ombra per sfuggire alla polizia. La mia situazione è l’inverso: vivere nell’ombra, sotto la protezione della polizia, per sfuggire a pezzi della società civile. Al tempo delle guerre di religione, un contemporaneo di Montaigne, Étienne de La Boétie, spiegò che la base della tirannia sta nel ‘vincolo volontario’ della popolazione. La debolezza del sostegno che ho ottenuto è una manifestazione di questo vincolo, è accettare che siano i fanatici religiosi a dettare legge. Occidente è il nome di quell’oasi dove è cresciuta la coscienza della diversità, il rispetto della libertà d’espressione, i Lumi. Noi europei crediamo che i tesori di civiltà siano naturali all’uomo. E’ un reato di metafisica progressista. Intanto, come scrisse Nietzsche in Zarathustra, il deserto cresce e morde sui miei giorni”. Forse la lezione più bella sta nel titolo scelto per il suo diario, “Il faut tenter de vivre”, che uscirà per Bompiani. “In una poesia vertice della letteratura francese, ‘Il cimitero marino’, Paul Valéry contempla il mare a Sète. Tra l’autore e il mare si dispiega il cimitero, che, come una vite generosa, copre la collina fino alla riva. E’ come un mare di tombe, prolungato da un mare di onde e d’acqua, il Mediterraneo. Al di là delle tombe, c’è il vero mare, la vita, la libertà. In altre parole: la vita è oltre la morte”.
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