Ecco chi dirige il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite Nessuna meraviglia per le accuse che l'Onu lancia su Israele. Analisi di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 23 settembre 2009 Pagina: 5 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Il palazzo dei tiranni»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/09/2009, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Il palazzo dei tiranni ". Un articolo che illumina con accuratezza una delle strutture più fatiscenti dell'Onu.
Navi Pillay, Alto Commissario per i diritti umani e organizzatrice di Durban II
Mentre al Palazzo di Vetro di New York è il gran giorno dei regimi islamici con le orazioni di Ahmadinejad e Gheddafi, a Ginevra, nella storica sede del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che una volta si chiamava Commissione, hanno testimoniato le vittime della repressione iraniana. C’era anche Ahmad Batebi, che dieci anni fa venne arrestato dagli ayatollah per la fotografia-simbolo della rivolta studentesca. Si vede Batebi a braccia tese e la maglietta macchiata dal sangue di uno studente ribelle come lui. Dopo otti anni di torture e prigionia, Ahmad è fuggito in occidente. Due giorni fa è volato a Ginevra, per testimoniare sulle repressioni messe in atto dal regime iraniano dopo le elezioni che hanno riconfermato Ahmadinejad. L’Economist gli dedicò la prima pagina, ma Ahmad fu condannato a morte due volte: prima gli mettevano la corda al collo e impiccavano davanti ai suoi occhi alcuni amici, poi lo bendavano e stringevano il cappio. All’ultimo momento quella foto lo salvava sempre. Troppo famoso per sparire nel silenzio del carcere di Evin. Sarebbe diventato l’unico dissidente iraniano, assieme al giornalista Akbar Ganji, a essere stato citato da George W. Bush. A Ginevra Batebi ci è andato con altri cinquanta intellettuali, oppositori ed ex prigionieri del regime iraniano per chiedere all’Alto Commissario per i diritti umani, Navi Pillay, di lanciare un’inchiesta sui crimini degli ayatollah. “Siamo scioccati dalla tirannia, dall’oppressione e dalle grandi violazioni dei diritti umani perpetrati dalla Repubblica islamica dell’Iran dopo le elezioni”, ha detto Batebi. “Ricordando che la Dichiarazione universale dei diritti umani garantisce il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, la libertà di opinione e di espressione, la libertà di riunirsi pacificamente e il diritto a partecipare a elezioni genuine”, i firmatari hanno chiesto all’Onu di indagare sui crimini in Iran. Hanno portato come prove le ragazze di Teheran stuprate dalle milizie Basiji, le torture su Taraneh Mousavi e Ebrahim Sharifi e l’uccisione di Neda Soltan. Ha testimoniato anche Miss Canada, l’iraniana Nazanim Afshin-Jam, impegnata nella lotta contro le esecuzioni di minori in Iran: “Il popolo iraniano vuole libertà, democrazia e diritti umani, gli abusi si fanno ogni giorno più terribili. Non c’è tempo da perdere, aiutateci”. Il principale ostacolo di Batebi e degli altri coraggiosi corsari iraniani non sono Ahmadinejad o Khamenei, quanto la stessa Navi Pillay e il Consiglio a cui i dissidenti si rivolgono. E’ lo stesso Consiglio di cui è entrato a far parte Saeed Mortasavi, il pubblico ministero di Teheran che ha perseguitato scrittori e torturato intellettuali, che è coinvolto nell’assassinio di una fotografa canadese e che è noto come il “macellaio della stampa”. In passato è successo che la Libia divenisse il presidente di questo Consiglio o che l’Arabia Saudita, Cuba e lo Zimbabwe decidessero quali violazioni fossero da condannare. Oggi è perfino peggio, dopo la svolta impressa da Kofi Annan. Il Consiglio “riformato” ha posto fine alle inchieste indipendenti sugli abusi in Iran e Uzbekistan su pressione dei due regimi. Il precedente Alto Commissario per i diritti umani, Louise Arbour, due anni fa ha partecipato a Teheran ai lavori di una conferenza su “i diritti dell’uomo e la diversità culturale”. Con il chador a coprirle il volto, la Arbour ascoltò senza battere ciglio Ahmadinejad mentre chiamava alla distruzione di Israele e negava l’Olocausto. L’attuale commissario non è da meno. La signora Pillay ha detto che “non c’è stata alcuna politica genocida in Sudan”. Lo scandalo è presto spiegato. Il Darfur è jihad più export cinese, due bastioni del Consiglio di Ginevra. La Cina alimenta il conflitto garantendo al Sudan forniture di armi e addestrando i piloti dei cacciabombardieri usati negli attacchi. Orde di arabi sudanesi hanno operato razzie, distrutto villaggi, pozzi, piantagioni, allevamenti e ucciso famiglie, dilaniando vecchi, stuprando donne, abusando di bambini e bambine per poi rivenderli come schiavi nei mercati del Sudan e del medio oriente. Le prove del genocidio continuano ad affiorare. Dal sottosuolo, con le fosse comuni. Ma il Consiglio le ha sempre ignorate. Navi Pillay ha organizzato anche “Durban 2”, la sciagurata conferenza sul razzismo che lo scorso aprile a Ginevra ha fatto da cassa di risonanza al negazionismo di Ahmadinejad. In prima fila, come la Arbour a Teheran, Pillay non si alzò per uscire in segno di protesta, come invece fecero gli ambasciatori europei. Sempre Pillay ha consentito che si approvasse la risoluzione numero 62/154. Titolo: “Combattere la diffamazione delle religioni”. E’ il più micidiale strumento di soppressione della libertà di espressione e il più grande successo della Organizzazione della conferenza islamica. La risoluzione mette al bando la critica dell’islam. I regimi tirannici alle Nazioni Unite hanno egemonizzato le nuove commissioni. L’Assemblea generale ha eletto il diplomatico libico Ali Treki a presidente della 64ma sessione. Treki ha preso il posto del nicaraguense Miguel d’Escoto Brockmann, il prete sandinista che si è distinto soltanto per il suo furore antisemita. Treki è stato ministro degli Esteri libico tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando gli uomini appoggiati da Gheddafi facevano saltare in aria aerei, aeroporti, sinagoghe e discoteche. La Libia in questi ultimi due anni è stato il paese più spinto nella retorica antisraeliana assieme all’Iran. Fino a guidare i lavori per la conferenza contro il razzismo di Ginevra dello scorso aprile, sfociata in una parata antioccidentale e antisionista. Tra i vicepresidenti di Treki c’è il rappresentante sudanese. Lo stesso che ha potuto tranquillamente dire che l’Onu non ha alcun diritto di criticare il suo paese solo perché amputa braccia o piedi oppure perché crocifigge e decapita i detenuti. Presidente della Commissione giuridica dell’Onu, che sui diritti umani riveste un ruolo di grande responsabilità, è un algerino e vicepresidente proprio un iraniano. Un rapporto dell’istituto di ricerca Freedom House denuncia il sequestro del Consiglio dell’Onu per i diritti umani da parte dei regimi dittatoriali. Il 51 per cento dei membri che siedono nel Consiglio sono “non liberi” o “parzialmente liberi”, dittature, satrapie, autocrazie, tutto tranne che democrazie. Ci sono anche Cina, Cuba e Arabia Saudita, “il peggio del peggio” secondo Freedom House. “Fra le società più repressive del mondo”. Nella commissione che fa consulenza al commissario Pillay, su diciotto membri sei provengono da regimi più o meno dittatoriali. Il Consiglio dei diritti umani succede alla discreditata Commissione che nel 2004 accettò l’affiliazione del Sudan, mentre quel paese stava compiendo il genocidio in Darfur. Ha cambiato nome, ma il Consiglio ha sempre la stessa missione: ignorare le violazioni di diritti umani nel mondo e condannare Israele. In questi due anni non una risoluzione contro Bielorussia, Chad, Cina, Cuba, Eritrea, Libia, Arabia Saudita, Siria, Iran, Turkmenistan o Zimbabwe. Per questo il celebre islamologo Ibn Warraq, sull’ultimo numero del magazine City Journal, definisce il Consiglio “un amico di islamisti e tiranni”. Titolo: “Diritti disumani”. E il magazine Foreign Policy parla del bisogno di “riportare i diritti umani dentro al Consiglio per i diritti umani”. Nel 2007 il Consiglio ha chiuso le inchieste sui crimini a Cuba e in Bielorussia. La proposta canadese di incriminare per delitti contro l’umanità i responsabili sudanesi del massacro in Darfur è stata rigettata dal Consiglio. Ogni volta che nel Consiglio le democrazie hanno sollevato il problema della sharia e dei crimini commessi in suo nome (lapidazioni, amputazioni, esecuzioni, mutilazioni…) gli ambasciatori dei regimi islamici sono riusciti a insabbiare tutto. Uno degli uomini più potenti nel Consiglio, Imran Ahmed Siddiqui, delegato pachistano, ha detto: “E’ un insulto alla fede parlare di sharia in questo forum”. Per l’inaugurazione dell’anno nuovo all’Onu è arrivato il rapporto del giudice Goldstone sulla guerra a Gaza. Un documento proveniente da un Consiglio che nel suo primo anno di mandato ha approvato tredici risoluzioni. Dodici contro Israele. Numerosi rapporti mostrarono come Hamas usasse i civili come scudi umani. Ma la condanna del rapporto Goldstone riguarda solo i razzi lanciati contro le città israeliane, non gli ostaggi civili dei palestinesi. In compenso, a essere accusato di “crimini di guerra”, alla stregua delle milizie serbe di Karadzic, è l’esercito israeliano. Goldstone ha raccomandato al Consiglio di sicurezza di chiedere a Israele di avviare indagini sui possibili crimini commessi dai militari. Se Israele non obbedirà, il Consiglio è tenuto a rivolgersi al Tribunale Internazionale dell’Aia, che ha già condannato la barriera di sicurezza israeliana che ha fermato i kamikaze palestinesi (proprio Pillay era giudice durante la sessione di condanna del “muro” israeliano). Il ministero degli Esteri di Gerusalemme definisce il rapporto “un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all’autodifesa”. E l’ex assistente di Benjamin Netanyahu, Michael Freund, parla di “pogrom politico”. La cosa più grave del rapporto è l’equivalenza morale che spinge l’Onu ad accostare Israele ad Hamas, l’unico stato creato su un voto delle stesse Nazioni Unite e un micidiale movimento terrorista devoto all’uccisione degli ebrei. Non una parola sul fatto che l’azione militare israeliana seguì come reazione al lancio di 12.000 razzi palestinesi sui civili israeliani. Sono dieci anni che alcuni magistrati europei cercano di portare all’Aia militari e politici israeliani. Nel 2001 la denuncia di un gruppo di palestinesi e libanesi fece aprire un’inchiesta in Belgio contro Ariel Sharon per crimini contro l’umanità. Il 10 settembre 2005 il generale della riserva Doron Almog stava atterrando a Londra con un volo El Al, quando l’ambasciata israeliana lo avvertì che c’era un ordine di arresto emesso da un magistrato inglese per violazioni della convenzione di Ginevra. Almog tornò a casa. E il ministro degli Esteri britannico Jack Straw fu costretto a chiedere scusa. Se non bastasse, il rapporto dell’Onu definisce il caporale Gilad Shalit “prigioniero di guerra” anziché “ostaggio”. Inviato speciale di Pillay per Israele è stato Richard Falk, professore emerito di Princeton e propugnatore di un “nuovo diritto internazionale”. Guardando Israele, Falk vede un “Olocausto in fieri” e uno stato con “tendenze genocide”. Falk rifiuta la caratterizzazione di Hamas come organizzazione terroristica e ha difeso il terrorismo palestinese come il “diritto di resistenza goduto da una popolazione occupata quando il potere occupante ignora il diritto internazionale e rifiuta di ritirarsi”. A dirci di cosa sia capace il Consiglio dell’Onu con sede a Ginevra sono i 108 israeliani residenti nelle località meridionali attorno alla striscia di Gaza e che sono appena andati a parlare davanti alla commissione a titolo personale per la stesura del rapporto Goldstone. Le loro testimonianze sono state largamente ignorate. “C’era da aspettarselo”, dice Noam Bedin, direttore dell’ufficio informazioni della cittadina di Sderot bersagliata dai Qassam palestinesi. “Quando mi sono alzato per iniziare la mia deposizione di fronte alla commissione – racconta Bedin – mi sono accorto che il presidente, il giudice Goldstone, si era addormentato davanti a me”. Un altro assistente speciale di Pillay è il sociologo marxista e militante filopalestinese Jean Ziegler, amico intimo di Castro, del defunto Kim Il Sung, del predicatore nero antisemita Louis Farrakhan e di Hugo Chávez. Nel 1989, quattro mesi dopo l’attentato su Lockerbie, Ziegler istituì il premio dei diritti umani e lo dedica a Gheddafi, molto probabilmente finanziatore dell’iniziativa. Nel 2002 questo premio venne assegnato a Roger Garaudy, il celebre filosofo negazionista francese dell’Olocausto che Ziegler ha elogiato per il suo “rigore” e la sua “onestà”. Ziegler è amico anche di Mugabe, del quale nel 2002 ha detto che “ha la sua storia e la sua moralità che lo accompagnano”. Nel 2002 fece visita a Saddam Hussein e nel 2006, poco prima della guerra in Libano, fece una dichiarazione in cui diceva di “rifiutarsi di considerare Hezbollah una organizzazione terroristica, ritenendola invece un movimento di resistenza nazionale”. Specificando anche di “comprendere il fatto che Hezbollah rapisca soldati israeliani”. Una delle ultime risoluzioni del Consiglio dei diritti umani si chiama “Promozione dei diritti dei popoli alla pace”. Voluta da Cuba, la risoluzione impedisce di condannare un regime per la violenza politica interna e condanna i “crimini di guerra” di potenze straniere, vedi Iraq e Afghanistan. Nella sessione estiva, Arabia Saudita e Camerun hanno giustificato la repressione di gay e lesbiche in nome dei “valori tradizionali”. Una settimana fa il Consiglio ha espulso il rappresentante onduregno del nuovo presidente Micheletti, perché inviato di un “governo illegittimo”. Sulla guerra civile nello Sri Lanka, il commissario Pillay, sudafricana di Durban, ha fatto pesare le proprie origini tamil, tanto che i media di Colombo l’hanno bollata come “amica dei terroristi”. Nella recente disfatta delle Tigri, i tamil in armi che puntavano alla secessione, sono morti dagli otto ai 20 mila civili. La responsabilità ricade sui governativi, ma anche sulle Tigri che usavano i civili come scudi umani (le vittime più illustri dei tamil, inventori del terrorismo suicida, sono state Rajiv Gandhi e il premier cingalese Premadasa). Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha bloccato ogni tipo di inchiesta. Da qualche giorno sappiamo anche che gli stati membri islamici del Consiglio hanno pianificato l’istituzione di una commissione “indipendente e permanente” per promuovere i diritti umani basati sulla Dichiarazione universale del Cairo, la versione islamica della carta dell’Onu del 1948. Questa Dichiarazione islamica ha ricevuto l’approvazione delle università coraniche, da al Azhar a Qom ed è stata fondamentale nel modificare in senso islamico la legislazione di molti stati, come Malaysia e Algeria, Indonesia, Pakistan, Iran, Yemen, Sudan, Egitto e gli stati settentrionali della Nigeria. Questa Dichiarazione ha ispirato l’abbandono delle legislazioni ispirate dai Codici napoleonici o dalla Common Law e l’introduzione della sharia. L’Arabia Saudita nel 1948 si rifiutò di firmare la Dichiarazione dell’Onu proprio in disaccordo sulla parità di diritti della donna e sul riconoscimento della libertà di coscienza. La pena di morte è iscritta nella solenne definizione della Carta islamica, là dove l’articolo due prescrive che “è vietato sopprimere la vita umana, tranne che per una ragione prescritta dalla sharia”. Anche il diritto all’integrità fisica non è garantito, perché mutilazioni e pene corporali sono vietate tranne che per “una ragione prescritta dalla sharia”. Si dice che “l’islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano”. Lo studioso francese Gilles Kepel sostiene che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam “straccia semplicemente” quella dell’Onu. Ha ben scritto Joshua Muravchik che il Consiglio dei diritti umani è il perfetto microcosmo della tragedia e della corruzione delle Nazioni Unite.
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