Avishai Margalit intervistato dal quotidiano trinariciuto Come orientare politicamente le interviste
Testata: Il Manifesto Data: 22 settembre 2009 Pagina: 11 Autore: Roberto Ciccarelli Titolo: «La ragioneria politica del kamikaze»
Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 22/09/2009, a pag. 11, l'intervista di Roberto Ciccarelli a Avishai Margalit dal titolo " La ragioneria politica del kamikaze ".
Margalit è un filosofo serio così come lo è quando fa analisi sociopolitiche. Si può essere d'accordo con lui, e noi non lo siamo, ma è studioso degno di ogni rispetto. Peccato che la sua intervista sia ospitata da un giornale con il quale molti, troppi intervistati non ne conoscono la metodologia. Una intervista può essere politicamente già orientata e lo si capisce da come vengono poste le domande. Questo è il caso del Manifesto sul quale in genere le interviste, per chi non è d'accordo con l'ideologia che esprime, possono spesso essere un boomerang. Ecco l'intervista:
Avishai Margalit
Adistanza di anni suona minacciosa la previsione che un giovane jihadi talebano fece all’inviato di un giornale inglese nei primi giorni della guerra in Afghanistan: «Gli americani non vinceranno mai perché loro amano la Pepsi Cola, mentre noi amiamo la morte». La ricorda Avishai Margalit, ospite del festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo. Filosofo della politica che ha passato tutta la vita alla Hebrew University di Gerusalemme, Margalit insegna oggi allo Institute for Advacenced Study di Princeton dove trovarono rifugio dal nazismo Albert Einstein, John von Neumann e Erwin Panowsky. Questa visione dell’occidente come una societàmeccanizzata priva di un’autenticità spirituale praticata dal giovane talebano è paragonabile agli aspetti peggiori del suo contraltare, l’orientalismo, quella visione dei popoli non occidentali che secondo Edward Said spoglia i suoi bersagli della loro umanità. Così come la prima rappresenta l’occidente come una zona corrotta del pianeta, la seconda rappresenta i non occidentali come una specie inferiore. Per Margalit gli ultimi eventi della guerra in corso in Afghanistan, o in Iraq non riaccenderanno un «conflitto di civiltà ». La sua idea è di depotenziare il pregiudizio presente in queste rappresentazioni, scoprendo ciò che le accomuna: l’idea dell’altro come essere inferiore che si traduce nella distruzione degli esseri umani. L’attacco kamikaze di giovedì scorso contro le truppe italiane a Kabul ha riportato d’attualità la guerra nel nostro paese. Lei ha spesso affrontato il problema del terrorismo suicida. Può spiegarne le origini e le motivazioni? Il terrorismo suicida è un fenomeno recente nelmondo contemporaneo. È venuto alla luce nell’ottobre 1983 in Libano quando gli hezbollah hanno ripreso la tattica kamikaze giapponese. Dieci anni dopo anche i palestinesi di Hamas hanno iniziato ad usare la pratica degli attentati suicidi. Nel frattempo si sono visti attentati simili anche in Sri Lanka, dove la guerra kamikaze non aveva l’obiettivo di costruire uno stato teocratico. La diversità di questi contesti è la dimostrazione che il terrorismo islamico è un fenomeno politico. Non è però un caso che questa pratica sia nata nella comunità sciita nella quale l’idea del sacrificio e del martirio è molto forte. Per quale motivo? Per capire questo fenomeno è necessario porsi due problemi: la ragione per cui le persone accettano di sacrificarsi e le motivazioni di chi le spinge al sacrificio. Le persone che inviano i kamikaze hanno ragioni politiche o religiose facili da comprendere. L’attacco suicida risponde però a criteri politco- militari, perché è, allo stesso tempo, un modo molto economico per raggiungere la distruzione totale del nemico senza neppure scomodarsi ad andare a salvare le persone che accettano il martirio. Molti ricorrono a spiegazioni teologiche, psicoanalitiche, addirittura antropologiche. Qual è la sua posizione? Non esiste alcun denominatore comune di tipo teologico (la ricompensa del paradiso per i martiri) o sociale come l’appartenenza di classe o la povertà che possa spiegare razionalmente perché uomini, donne o adolescenti accettino di suicidarsi e di uccidere degli innocenti. Non troveremo però una spiegazione del terrorismo suicida nelle motivazioni personali dei singoli. Bisogna spostarsi su un altro piano. Si è da tempo formata un’atmosfera, una vera e propria cultura, che permette la realizzazione di queste azioni. Nel mio paese, Israele, il terrorismo suicida è stata un’epidemia che è iniziata apparentemente senza spiegazioni ed è continuata per ondate successive. Nella prima ondata, si è appreso, per preparare un kamikaze occorreva un anno per eseguire l’attentato. Nella seconda poco più di un giorno. Il terrorismo suicida in Palestina e in Israele è uguale a quello in Iraq e in Afghanistan? Questo terrorismo esclude il ricorso a spiegazioni essenzialistiche o unificanti.Ovviamente ci sono problemi locali che influiscono sulla sua dinamica generale. Il reclutamento dei kamikaze, ad esempio. Nel corso degli anni abbiamo capito che si tratta di un fenomeno che procede ad ondate e si riproduce in società per motivi anche molto diversi, dalla rabbia contro gli oppressori alla delusione personale in seguito al fallimento di altre prospettive politiche. Ricordo il caso di un militante dell’esercito rosso giapponese, Kozo Okamoto, che partecipò all’attentato dell’aeroporto Loid di Tel Aviv nel 1972 in un’azione con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habbash. Okamoto venne arrestato, mentre i suoi compagni si fecero esplodere. Allora si disse che solo i giapponesi potevano accettare di suicidarsi, mentre i palestinesi non lo avrebbero mai fatto perché non erano abbastanza coraggiosi. Il terrorismo suicida non è però solo una questione di coraggio, è una pratica culturale che è cambiata ed è stata adottata dagli jihadisti in Palestina, in Iraq o in Afghanistan. E non è detto che non rispunti altrove. In un libro scritto con Ian Buruma, lei ha spiegato questo fenomeno alla luce di una forma culturale, l’«occidentalismo». Può definirne le caratteristiche? L’«occidentalismo» è la rappresentazione disumanizzata dell’occidente creata dai suoi oppositori. Voglio chiarire che sono diverse le ragioni per cui i popoli possono odiare l’occidente. Ad esempio ci sono evidenti differenze tra coloro che criticano l’« imperialismo» americano e i fondamentalisti islamici. Inoltre, l’occidentalismo non coincide interamente con l’antiamericanismo. Entrambi avversano gli aspetti culturali della globalizzazione o il potere delle multinazionali, ma i loro obiettivi politici non sono paragonabili. L’occidentalismo ha tradotto in linguaggio politico l’avversione contro l’illuminismo, il liberalismo e il secolarismo presente in molti paesi occidentali. È una critica della corruzione, dell’individualismo e dell’omologazione della vita occidentale. La mentalità occidentalista è stata infatti criticata dagli stessi «occidentali »: i romantici in Germania, i “populisti” russi, da Dostoievskj in nome della spiritualità della cultura slava, come nel Giappone negli anni Trenta per finire con il nazismo e il fascismo. I fondamentalisti islamici l’hanno ripresa e sviluppata nel senso del wahabismo, un’ideologia puritana nata in Arabia Saudita. Qualche anno fa i neo-conservatori hanno usato l’occidentalismo per giustificare l’esistenza di uno scontro di civiltà che l’islam totalitario e fascista starebbe conducendo contro l’occidente cristiano e liberale. Lei cosa ne pensa? Non ho mai creduto nell’esistenza di uno scontro tra civiltà. L’occidentalismo non può essere spiegato in nessunmodo come un problema islamico. Né l’islam è una «cultura della morte». Non credo ad una parola di queste ricostruzioni che vengono dalla destra. Qualsiasi cultura può produrre, in alcune circostanze, il terrorismo suicida. I fondamentalisti islamici credono in una rappresentazione essenzialistica dell’occidente che può essere molto dannosa e stereotipata. Pensare che l’occidente sia corrotto da un materialismo senz’anima è una rappresentazione classica che gli occidentali hanno offerto di se stessi nel corso della storia. Quando i politici del fondamentalismo islamico fanno questi discorsi riproducono una mentalità creata dagli occidentali che pensano di combattere. Durante la guerra in Libano del 2006 lei ha partecipato alle azioni del movimento pacifista «Peace now». Quale può essere oggi il ruolo della sinistra nei conflitti tra nazionalismi, ad esempio quello tra arabi e israeliani? La sinistra è stata devastata dal risultato delle ultime elezioni politiche in Israele. Il paese è interamente nelle mani della destra. La sinistra è demoralizzata e impotente, ma deve continuare a cercare una soluzione per la pace in Medioriente e per la creazione di uno stato palestinese che conviva con quello israeliano in una giusta divisione delle terre. La situazione è paradossale molte persone oggi in Israele usano il linguaggio della sinistra ma alimentano la realtà della destra. Quando si parla di uno stato palestinese non c’è alcuna intenzione di realizzarlo. La stessa cosa succede con la soluzione dei due stati. Del resto, anche in Palestina la situazione, oltre che drammatica, èmolto difficile politicamente. La divisione tra Gaza e la Cisgiordania non permette lo sviluppo di una leadership politica autorevole con cui Israele possa trattare. Insomma, non ci sono molti motivi per essere fiduciosi per il futuro. L’unico sostegno che la sinistra sta ricevendo è dall’amministrazione Obama, con Hillary Clinton e l’inviato speciale George Mitchell. Penso che sia la migliore squadra di cui gli Stati Uniti hanno potuto disporre da molto tempo a questa parte per il Medioriente. Hanno molte soluzioni nel piatto. Noi ci chiediamo se riusciranno a realizzarle.
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