Riportiamo da LIBERO di oggi, 20/09/2009, a pag. 7, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " Primi risultati del dialogo di Barack il buono: l'Iraq abbandona migliaia di rifugiati dell'era Saddam ".
Campo Ashraf
Sarà anche vero che la democrazia è difficile da esportare, ma le guerre di liberazione,una volta iniziate, dovrebbero potersi concludere. Invece è sufficiente un cambio di presidenza Usa per mettere a rischio i risultati raggiunti. E’ il caso dell’Iraq, dove l’arrivo di Obama ha aperto scenari persino peggiori di quelli ai quali eravamo abituati con Saddam Hussein. Che il regime di Nuri Al-Maliki voglia oggi normalizzare le relazioni con l’Iran può anche avere senso, ma il prezzo che si appresta a pagare annulla le garanzie che la presenza americana aveva salvaguardato. Obama non è Bush, quello che gli interessa è dialogare, poco gli importa se questo può significare la deportazione, e la morte probabile, di migliaia di persone. E poco contano gli impegni presi dalla precedente amministrazione.
Questa storia inizia nella metà degli anni ’80, quando alcune migliaia di oppositori del regime khomeinista fuggirono dall’Iran e trovarono rifugio in Iraq nella provincia di Diyala, vicino al confine tra i due paesi, dove crearono un insediamento , il “ Campo Ashraf”. Appartenevano ai Mujahedin del Popolo, strenui nemici della dittatura iraniana, e Saddam, nemico storico dell’Iran, li accolse a braccia aperte. Il campo fu dotato di tutte le attrezzature, scuole, ospedale, i servizi indispensabili per una comunità di circa tre-quattromila persone. Dopo la caduta di Saddam, l’amministrazione militare americana aveva confermato il diritto d’asilo, concedendo agli iraniani lo status di rifugiati politici. Un diritto che non è stato rinnovato dal nuovo governo iracheno, il quale sembra invece intenzionato a non concedere più nemmeno l’asilo, di fatto la riconsegna dei rifugiati agli sciiti iraniani, con le conseguenze che ne possono seguire. Un assaggio lo si è già avuto il 28 luglio scorso, quando le forze di sicurezza irachene sono entrate nel campo con incredibile violenza, sparando sulla folla, uccidendo almeno nove persone e ferendone molte altre.Trentasei sono poi state imprigionate, senza alcun capo d’accusa. E’ probabile che saranno consegnate alla polizia iraniana, per finire torturate e uccise, come succede agli oppositori di Ahmadinejad. Quella che era una piccola isola di libertà rischia di scomparire, e finora a poco sono servite le proteste internazionali. Il delegato in Italia del Mujahedin del Popolo, Davood Karimi, ha scritto al Papa chiedendogli di intervenire, si è formato un comitato bipartisan di deputati italiani che ha inviato un appello al governo Usa, all’Onu, al commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma la storia di Campo Ashraf è ignota al grande pubblico, non ne scrivono i giornali e nessuna rete televisiva, a quanto ci risulta, ne ha mai fatto oggetto di un servizio. Invece occorre al più presto liberare chi sta per essere consegnato alla polizia iraniana, e tutelare il diritto di rimanere in Iraq per tutti coloro che vivono a Campo Ashraf. Ne va della loro vita. La lotta contro i regimi del terrore non può significare arrendersi alla violenza. E’ una guerra, e come tale va combattuta. Quel che succede oggi in Iraq, così come in Afghanistan, è qualcosa che ci riguarda da vicino, l’obiettivo successivo saremo noi, l’Occidente, l’Europa, i nostri stili di vita, la nostra società nel suo insieme. Siamo gli infedeli, e come tali il nostro destino è segnato. Non sarà certo comportandoci come dei novelli Chamberlain, illudendoci che con il dialogo si possa sconfiggere il nemico, che riusciremo a fermarne l’avanzata. Far conoscere la storia di Campo Ashraf, cercare di salvare quella gente, fa parte di questa guerra di difesa.
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