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La Stampa;Il Giornale Rassegna Stampa
19.09.2009 Kabul, analisi di David Petraeus,Gian Micalessin, Andrea Nativi
Voglio il dialogo, dice invece Romano Prodi. Che pena.

Testata:La Stampa;Il Giornale
Autore: David Petraeus,Gian Micalessin,Andrea Nativi,Fabio Martini
Titolo: «Ricordiamoci perchè siamo lì-Ma i talebani non stanno vincendo-E' ora di dare le armi (e non solo) ai nostri soldati- Necessario parlare con tutti, la via è il dialogo»

La strage il giorno dopo. Della cronaca ne sono pieni i giornali, per cui riprendiamo solo alcuni commenti. Dalla STAMPA di oggi, 19/09/2009, in prima, l'analisi del gen.David Petraeus, dal GIORNALE quella di Gian Micalessin e di Andrea Nativi, che fanno il punto militare della situazione. Infine, dalla STAMPA un'intervista di Fabio Martini a Romano Prodi, ben riassunta nel titolo "Necessario parlare con tutti, la via è il dialogo". Possibile che non sia un'anima buona che spieghi a Prodi che cosa sta succedendo in Afghanistan, che gli racconti che l'Occidente è in guerra non solo per difendere le popolazioni locali dai talebani ma per impedire che subito dopo arrivino fino a noi ? Che gli spieghi chi sono i talebani, chi è Al Qaeda, cos'è il califfato mondiale, che l'obiettivo è il dominio mondiale ? Fa pena sentirgli dire delle banalità come quelle riportate nell'intervista.
Ecco gli articoli:

La Stampa-David Petraeus-  " Ricordiamoci perchè siamo lì "

 David Petraeus

Colin Cramphorn, un poliziotto che prestò servizio nell’Irlanda del Nord e in molti altri luoghi, osservava che ogni posto è diverso dall’altro, ma tutti sono interconnessi. Per dirla con il poeta inglese John Donne, «nessun uomo è un’isola». Concetto fondamentale per la nostra sicurezza: nessun problema può essere trattato isolatamente.
La regione sotto il mio comando copre 20 Paesi, dall’Egitto al Pakistan, dal Kazakistan allo Yemen e alle acque al largo della Somalia.

Poiché sta a cavallo dei tradizionali territori di ex imperi, risente ancora oggi delle antiche tensioni. Ci vivono 530 milioni di persone che appartengono ad almeno 22 grandi gruppi etnici, parlano 18 lingue e praticano quattro religioni diverse. La zona è ricca di petrolio e di gas naturale ma povera di acque dolci. Ci sono Paesi con il più alto reddito pro capite del mondo e altri col più basso. In 18 dei 20 Paesi i giovani fra i 15 e i 29 anni costituiscono più del 40 per cento della popolazione, e per molti di loro non ci sono opportunità economiche. E’ una combinazione unica di tutti i pericoli e di tutte le risorse della regione sotto il comando centrale, e questo la rende così cruciale per la sicurezza di tutti i Paesi sviluppati.
Contrastare i terroristi e l’estremismo richiede assai più di un approccio militare convenzionale. Le operazioni militari permettono di liberare le aree dai ribelli, ma qualunque strategia che voglia contrastarli deve concentrarsi sul fatto che il terreno decisivo è quello umano. Concentrarsi sulla popolazione può, se fatto bene, migliorare la sicurezza dei civili e aiutare a estendere i servizi di base. Può aiutare a delegittimare i metodi degli estremisti - soprattutto se si riesce a contrastare la loro volontà e la loro capacità di appoggiare e proteggere la popolazione con le spesso terrificanti azioni dei gruppi estremisti. Paradossalmente, però, proprio l’estremismo della loro ideologia, la violenza indiscriminata e le pratiche opprimenti possono aiutare la gente a capire che ben difficilmente la loro vita potrà migliorare sotto il controllo di movimenti simili.
Ma perché la strategia funzioni è anche necessario trovare il modo di identificare gli elementi ribelli potenzialmente concilianti per trasformarli in parte della soluzione ai problemi.
In Iraq la sicurezza è molto migliorata negli ultimi due anni, sebbene la situazione resti sempre fragile e reversibile. Gli attacchi dei ribelli sono scesi dai 160 al giorno del giugno 2007 ai 20 attuali. In Afghanistan la sicurezza è la preoccupazione principale, ma non l’unica, a cominciare dalla legittimità del nuovo governo. Chiaramente, il trend della sicurezza in Afghanistan è una spirale verso il basso, con picchi estremi di violenza nelle ultime settimane.
Di fronte a sfide così difficili, è importante ricordare perché ci troviamo lì: siamo lì per garantire che Al Qaeda e altri gruppi estremisti transnazionali non possano ricostituire in Afghanistan quei santuari che avevano sotto il regime taleban prima dell’11 settembre.
Il generale Stan McChrystal, il comandante in capo delle forze alleate in Afghanistan, è il primo a riconoscere non solo le capacità straordinarie ma anche i limiti delle forze antiterrorismo in Afghanistan. Oltre alle operazioni militari stiamo aiutando il governo di Kabul a combattere la corruzione che ha minato la legittimità di alcune sue istituzioni. Stiamo anche lavorando duramente per accelerare lo sviluppo delle sue forze di sicurezza e intaccare il commercio della droga, promuovendo alternative agricole e sviluppando infrastrutture perché i contadini afghani possano portare i loro prodotti al mercato.
Dobbiamo però essere realisti e riconoscere che per avere successo ci vuole una dedizione sostanziale e sostenuta. Di fronte a noi abbiamo compiti impegnativi, compresa l’individuazione di una via per il dopo elezioni, peraltro macchiate dalle accuse di brogli. In Afghanistan le sfide sono importanti e la posta in gioco alta. E mentre la situazione è indubbiamente seria, come ha detto il generale McChrystal, la missione è ancora realizzabile. Come in Iraq nel 2007, così oggi in Afghanistan tutto è difficile, e lo è tutti i giorni.

*Questo è un estratto del discorso pronunciato dal generale David Petraeus, comandante dell’U.S. Central Command, al pensatoio politico britannico Policy Exchange.

Il Giornale-Gian Micalessin- " Ma i talebani non stanno vincendo "

 talebani

Il Vietnam è sempre lì ad insegnarlo. In un conflitto se mancano la volontà di vincere e il sostegno dell’opinione pubblica si rischia di tornare a casa sconfitti anche senza aver perso una sola battaglia. Nell’Afghanistan d’oggi, nell’Italia che piange il sacrificio di sei ragazzi serpeggia qua e là la stessa sindrome da inevitabile sconfitta. Quella sindrome rischia di farci accettare l’assioma dei talebani vittoriosi. Un assioma infondato e scollegato da quanto avviene sul terreno. Le recenti elezioni presidenziali lo dimostrano, con l’efficacia di una cartina di tornasole. Poche settimane prima del voto gli insorti minacciano di morte chiunque andrà alle urne, assicurano di esser pronti a bloccare le strade, annunciano la distruzione dei seggi. È solo un bluff. Alla resa dei conti l’offensiva talebana si limita a un lancio di missili contro il quartiere delle ambasciate di Kabul e a un paio di sanguinosi attentati suicidi simili a quello subito giovedì dai nostri paracadutisti.
Quegli attacchi di stampo terroristico rivelano l’inconsistenza militare degli insorti. Privi di un reale sostegno popolare non riescono a penetrare i centri urbani mentre nelle zone rurali la mancanza d’armi ed effettivi gli impedisce di affrontare le forze straniere. Gli unici veri attacchi letali colpiscono unità dell’esercito o della polizia afghana, il ventre molle del fronte anti talebano, le forze che i nostri soldati e il resto della Nato stanno ancora addestrando. Ed eccoci al punto, al nocciolo del problema trasformato nel falso assioma dell’imminente o inevitabile vittoria talebana. Addestrare 135mila soldati e 82mila poliziotti, richiede tempo, ma è l’unico modo per trasferire agli afghani la responsabilità del mantenimento della sicurezza e progettare un possibile futuro ritiro. Tutto ciò richiede molto tempo mentre - spiega il generale britannico Nick Carter, futuro comandante delle forze Nato in Afghanistan - i governi e le opinioni pubbliche occidentali esigono risultati immediati. «Non ci concediamo il lusso del tempo, ma a ben pensarci 18 mesi fa nel sud del paese c’erano soltanto 1500 soldati americani contro i 25mila di oggi ...senza contare l’incredibile dispiegamento di risorse capace dal prossimo anno di far la differenza». Non concedersi il lusso del tempo, andare nel panico per mancanza di successi immediati rappresenta, insomma, la vera debolezza capace di trasformare un progressivo successo strategico in un’immediata sconfitta psicologica.
Il richiamo alla pazienza deriva dall’analisi degli errori commessi tra il 2001 e la prima metà del 2008 quando Stati Uniti e Nato assistettero passivamente al crescere della minaccia talebana. Mettere a punto una nuova strategia, schierare gli uomini necessari per imporla, riconquistare - come predica il nuovo generale americano Stanley McChrystal - il cuore e la mente degli afghani richiede molto più di sei mesi. Eppure i risultati già si vedono.
L’esempio più evidente sono i successi conseguiti dai nostri paracadutisti nonostante la strage di giovedì e l’uccisione, a metà luglio, del caporal maggiore Alessandro di Lisio. Combattendo al fianco dell’esercito afghano vere e proprie battaglie campali in cui hanno neutralizzato decine di talebani i parà della Folgore si sono garantiti, senza perdere un solo uomo, il pieno controllo dell’avamposto nord occidentale di Bala Mourgab. Il loro successo più evidente in quella zona è stata la quasi-resa degli insorti che, caso unico nel paese, hanno accettato a luglio di discutere con le forze governative una tregua elettorale. Anche a Farah, la più calda delle quattro province sotto comando italiano, la Folgore si è garantita, utilizzando la forza delle armi e il dialogo con i civili, piena libertà di movimento per le proprie colonne e gli alleati governativi. I talebani abituati ad attaccarli nascondendosi nei centri abitati hanno progressivamente rinunciato al combattimento. Oggi l’unica loro forza sono gli attacchi suicidi e le trappole esplosive. Fanno male, trasmettono insicurezza e rallentano gli spostamenti, ma non assicurano né il controllo del territorio, né il sostegno della popolazione, né quell’imminente futura vittoria talebana pronosticata da schiere di nuove Cassandre.
 
Il Giornale-Andrea Nativi- E' ora di dare le armi (e non solo) ai nostri soldati
 soldati della  "Folgore "
I mezzi, le armi, gli uomini, l'addestramento per consentire al nostro contingente in Afghanistan di svolgere una azione più efficace sono in larga misura già disponibili. Solo che, invece di andare a Kabul e dintorni rimangono in Italia o, quando raggiungono l’Afghanistan, sono soggetti a troppi vincoli. Politici. Non tecnici.
L'aspetto più evidente è rappresentato dall’ampiezza del mandato, dal quale poi discendono le regole di ingaggio. Basta leggere l’incarico affidato alla missione Nato Isaf, con tanto di legittimazione Onu, per capire che quella in corso è una missione di guerra (peace enforcing in gergo tecnico). Se i nostri generali potessero seguirlo alla lettera agirebbero esattamente come i loro colleghi inglesi, canadesi, olandesi, statunitensi. Cioè braccherebbero ed eliminerebbero i guerriglieri per proteggere davvero la popolazione e consentire la ricostruzione, che può aver luogo solo se prima si creano condizioni di sicurezza.
Ma ai nostri soldati è consentito solo reagire a una minaccia. Per contrastare Talebani e affini i nostri soldati ricorrono all'escamotage di «accompagnare» i reparti dell'esercito afgano, i quali da soli nemmeno si sognerebbero di andare a «disturbare» i guerriglieri nei loro santuari. Ma si potrebbe fare meglio e di più. Ad esempio, mandando nelle aree più calde qualche blindo Centauro, se non anche i carri Ariete. Questi mezzi sono armati rispettivamente con cannoni da 105 e 120 millimetri che darebbero alle unità la potenza di fuoco per risolvere velocemente in nostro favore scontri come quelli che si sono verificati questa estate. Senza dover battagliare a lungo in attesa che intervengano i nostri elicotteri da combattimento Mangusta o gli aerei alleati. Perché oggi l'arma più potente di cui dispongono i nostri è una mitragliera da 25 millimetri montata sui pochi corazzati Dardo. Un po' poco.
Ancora: si potrebbe mandare un po' di artiglieria, in aggiunta ai mortai da 120 mm. Ad esempio i semoventi da 155 millimetri. Questi mezzi, piazzati su alture lungo i percorsi usati da convogli e pattuglie, possono fornire supporto di fuoco in tempi brevissimi, di giorno e di notte. Le truppe nei guai trasmettono le coordinate dei bersagli e nel giro di minuti arrivano le granate. Un solo semovente «copre» 60 chilometri. Gli olandesi hanno ottenuto ottimi risultati con questo sistema. E i guerriglieri ci pensano due volte prima di attaccare i loro convogli.
Ancora: non è certo un problema per l'Italia mantenere in Afghanistan una presenza come quella attuale, anzi, se il contingente in Kosovo ed eventualmente anche quello in Libano si andranno a contrarre, come probabile, si potrebbe accrescere quello in Afghanistan. Come gli alleati, Nato e Usa ci chiederanno a breve. Un altro settore dove si può fare di più è quello aereo: gli elicotteri sono già numerosi e le nostre forze armate non hanno i problemi di britannici e americani. Quanto ai velivoli senza pilota, stanno aumentando i Predator. Però è assurdo che i Predator americani montino missili e i nostri no. Mentre è abbastanza ironico che i Pakistani abbiano impiegato con successo contro i Talebani i velivoli senza pilota Falco fabbricati in Italia... sistemi che il nostro esercito invece non possiede.
Soprattutto l'Italia non ha aerei da combattimento a fornire appoggio al suo contingente. Così quando ci sono guai seri bisogna chiedere aiuto agli alleati. Abbiamo 2 Tornado a Mazar I Sharif, ma per ora possono solo operare come ricognitori. Il parlamento non ha deciso se autorizzare l'impiego di questi cacciabombardieri nel supporto tattico ravvicinato. Al massimo si parla (per ora) di consentire mitragliamenti con i cannoncini. Una scelta ridicola. Dovrebbe essere la situazione sul terreno a dettare quale arma impiegare, non la dialettica parlamentare. Per non parlare dei 10 cacciabombardieri Amx, con 34 piloti, che in agosto si sono preparati con gli americani a operare e combattere in Afghanistan. Perché non inviarli? Possibilmente subito.
 
La Stampa- Fabio Martini - Prodi " Necessario parlare con tutti, la via è il dialogo"
 Romano Prodi
 
Non c’è verso, la politica italiana gli dà l’orticaria. Le ultime di Bossi? Berlusconi? Romano Prodi non ne vuol proprio parlare, ma invece la politica estera continua ad appassionarlo: si tiene aggiornato (tre giorni fa Vladimir Putin lo ha ricevuto per un’ora al Cremlino, quasi fosse un premier in carica) e dunque sulla questione afghana il Professore ha le idee chiare. Dice Prodi: «L’obiettivo della missione Isaf è quello di aiutare il nuovo Stato a stabilizzare le sue strutture, dando un futuro a quel popolo. E dunque all’indomani di un attentato ritirarsi - o dare anche soltanto l’impressione di allontanarsi - sarebbe un errore, oltretutto tatticamente anche pericoloso». Ma Prodi dice qualcosa in più: «Ho sempre pensato e continuo a pensare che, accanto alla presenza militare, la strada maestra sia quella della politica. Avendo la capacità di avviare contatti con tutti, anche là dove disperi di trovare ascolto. Bisogna parlare con tutte le forze in campo. Sapendo distinguere e isolare chi non è disposto a dialogare».
Romano Prodi vuol dire che a questo punto non bisogna farsi scrupoli nel dialogare con l’ala meno oltranzista dei Taleban. In Italia posizioni di questo tipo, nel passato, sono state sommerse da un diluvio di anatemi e ne sa qualcosa l’ex leader dei Ds Piero Fassino, che osò dirlo due anni fa. Ma Prodi sa bene che questo è lo schema utilizzato con successo in Iraq dal generale Petraeus e sa bene che esattamente questa è la posizione del Presidente degli Stati Uniti. E tra l’altro, i vertici militari statunitensi e inglesi, in un incontro riservato svolto due giorni fa a Londra, avrebbero valutato che proprio questo è l’approccio da perseguire. Seppur consapevoli delle difficoltà derivanti dalla differenza tra la struttura più compatta dei clan iracheni e quella più parcellizzata, per villaggi, dell’Afghanistan. Sostiene Prodi: «L’Afghanistan è stato a lungo usato come territorio di guerra dai Paesi circostanti, è stato luogo di commercio di droga, ma ora né gli Stati Uniti né i Paesi che partecipano alla missione, intendono colonizzare l’Afghanistan».
Sulla politica estera Romano Prodi si tiene in palla. A 70 anni ha ripreso a girare il mondo. Qualche mese fa, a Pechino, il primo ministro cinese Wen Jabao lo ha voluto a cena, tre ore di colloquio così informale che l’incontro si è svolto senza la presenza degli ambasciatori. Un anno fa, a Teheran, il Professore ha incontrato Ahmadinejad, tre giorni fa Prodi era al Cremlino con Putin, presto riprenderà le lezioni alla Brown University, una delle più prestigiose e selettive università americane. E fra qualche giorno il Professore inizierà una nuova, sorprendente attività: quella di commentatore alla televisione cinese.
Eppure, anche in Italia fioccano gli inviti. La scorsa settimana l’Ufficio Studi di Confindustria lo ha invitato ad un convegno sulle prospettive dell’economia. E in quella circostanza, alla presenza della presidente Emma Marcegaglia, parlando della sua passione da economista per le imprese, Prodi ha raccontato un aneddoto davvero gustoso: «Si è sempre detto di un mio rapporto difficile con Enrico Cuccia. In realtà ebbi un unico contrasto con lui. Una volta l’incontrai e mi disse: “Professore, ho sentito che lei va a visitare le imprese: non lo faccia perché ci si affeziona...”». Lì parlava il pragmatismo del banchiere, ma Prodi tiene il punto: «E invece io mi appassiono!».
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