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Il Foglio Rassegna Stampa
15.09.2009 Guerra in Afghanistan: coinvolgere la Cina per portarla a termine
L'analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 15 settembre 2009
Pagina: 5
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Se la Cina salva l'Afghanistan»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/09/2009, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Se la Cina salva l'Afghanistan ".

 Soldati cinesi

Pensare a un problema e scoprire che la Cina offre la soluzione già pronta. L’Italia consuma quantità enormi di concentrato di pomodoro? Lo importa a prezzo stracciato dai cinesi. Il comune di Roma ha bisogno di rimettere a posto le strade con sampietrini nuovi? Chiede ai cinesi. La General Motors cede il marchio Hummer per fare cassa e trova subito compratori dalla Cina: il fuoristrada simbolo delle campagne americane contro al Qaida è diventato da giugno proprietà della Sichuan Tengzhong. La Soluzione cinese è duttile e universale, si può estendere, si può adattare anche ai problemi più ampi della geopolitica. Non funziona soltanto con il veicolo blindato protagonista della guerra: può essere allargata all’intera guerra contro i talebani, presa in blocco. In Afghanistan l’occidente è a corto di manodopera militare. Ci sentiamo incastrati a Kabul in un conflitto lungo e difficile da vincere, con un governo locale debole e corrotto e contro un nemico che ha fatto della sua abilità nel combattere la guerriglia un vanto nazionale. Soprattutto, ci sentiamo ancora più a corto di soluzioni: dopo otto anni, è la sensazione, rimane poco di ancora intentato. E se il nuovo generale McChrystal non riesce a imprimere in fretta una svolta significativa alla situazione, potremmo appaltare anche questo problema – è la tentazione che circola – a Pechino. Qualcosa si è già mosso. All’inizio di marzo un non meglio identificato “funzionario della Nato” ha detto da Bruxelles che l’Alleanza atlantica vorrebbe chiedere a Pechino l’impensato: mandate i vostri soldati dell’Esercito popolare in Afghanistan a combattere al nostro fianco. Non sarebbe in fondo un gran viaggio. La Cina condivide con l’Afghanistan 76 chilometri di confine nel corridoio Wakhan, una striscia di territorio poco popolosa che si infila tra il Pakistan e il Tagikistan; è la Via della Seta di Marco Polo, un percorso da carovane antico di 2.000 anni che taglia la regione più impervia del mondo. Una settimana prima della richiesta senza volto della Nato, il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, era volata a Pechino. Argomento centrale della sua missione: il ruolo che la Cina può avere nel dare una mano in Afghanistan. Gli ospiti erano rimasti deliziati dalla citazione dell’antico aforisma cinese da parte della Clinton: tongzhou gongji, ovvero “aiutarsi l’un l’altro, quando si sta sulla stessa barca”. Il più intelligente degli intelligenti tra gli analisti ascoltati al Pentagono, Thomas P. Barnett, aveva commentato con entusiasmo la mossa della Clinton. “Finalmente! Sono sicuro che la richiesta che è arrivata dalla Nato è partita dopo la missione della Clinton. Che segretario di stato, che differenza da Powell e Rice!”. Barnett è l’autore di “The New Pentagon’s Map”, un saggio futuristico sugli equilibri prossimi venturi del pianeta letto con attenzione dalla Difesa americana. Non sfugge neppure che l’inviato nominato dal presidente Obama per Afghanistan e Pakistan, Richard Holbrooke, sa già muoversi bene a Pechino e laggiù ha sue vecchie conoscenze. Potrebbe essere stata una nomina lungimirante. L’ultimo a riprendere l’idea “soldati cinesi contro i talebani” è da poco un giornalista della Stampa, Francesco Sisci. Ma il suo pezzo è disponibile soltanto in inglese, su Internet. Si tratta di un’ipotesi paradossale, che però esercita un fascino terribile. Al punto che il portavoce del ministro degli Esteri, Qin Gang, è stato costretto a smentire Bruxelles, “dopo gli inviti ripetuti da parte della Nato a unirsi allo sforzo militare in Afghanistan”. “Abbiamo già chiarito la nostra posizione: la Cina non manderà un singolo soldato all’estero, se non nell’ambito di operazioni di peacekeeping sotto un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Pechino per ora si è limitata a mandare due rappresentanti di alto livello ai due incontri internazionali più importanti sull’Afghanistan degli ultimi mesi. A marzo a Mosca, sotto l’egida dell’organizzazione per la cooperazione di Shanghai, i paesi del centro Asia più la Russia, e all’Aia, in marzo, con tutti i paesi occidentali impegnati. Però: la Cina ha tutto quello che serve per intervenire nel teatro Afpak, Afghanistan più Pakistan, nel gergo soldatesco- diplomatico degli americani. Può inondare con le sue divisioni l’Afghanistan e può fare ragionare il Pakistan, storico vassallo di Pechino. Gli uomini, innanzitutto. In Afghanistan c’è bisogno di un grande numero di soldati per controllare il labirinto di montagne al centro del paese, le pianure coltivate a oppio giù al sud e il confine tribale lungo duemila chilometri ancora più a sud, con il suo viavai impunito di guerriglieri. L’ex comandante della Nato a Kabul, Dan McNeill, dice che servirebbero almeno 400 mila uomini, quattro volte il contingente schierato adesso. Allo stesso numero si arriva se si calcola il numero di soldati per chilometro quadrato in Kosovo, una missione di peacekeeping solida, e lo si applica all’Afghanistan. Anche il paragone con l’Iraq è scoraggiante: i sunniti, il nocciolo duro della guerriglia, erano cinque milioni, e per domarli ci sono voluti 160 mila americani. In Afghanistan gli intrattabili pashtun sono il doppio, sparsi su un’area più grande. Nel sud, gli inglesi si lamentano. Siamo sparpagliati in una zona troppo vasta: “E’ come voler annaffiare un campo di calcio con un secchio d’acqua”. Così, a dispetto dell’estate più dura di combattimenti dal 2001, il controllo è ancora nelle mani dei talebani. Territorio indiano. Se un elicottero cade nell’Afghanistan del sud, è considerato perduto dietro le linee nemiche. Il giorno delle elezioni un Chinook delle squadre speciali è stato preso in mezzo dal fuoco dei guerriglieri, subito dopo aver sbarcato una squadra, e ha dovuto fare un atterraggio d’emergenza a poca distanza. Dopo aver portato in salvo i piloti, il comando ha adottato la procedura standard prevista per non lasciare materiale militare al nemico: due bombardieri Harrier sono passati a bassa quota e hanno sganciato due bombe per trasformare il velivolo fermo in un cratere. Lo stesso in alcune zone del nord. Il reporter del New York Times Stephen Farrell, rapito per quattro giorni dai talebani, racconta di essere stato spostato in macchina: “Non abbiamo mai incontrato un posto di blocco, occidentale o afghano”. Quella zona è controllata dai tedeschi, ma secondo il Times di Londra potrebbero ritirarsi a partire dal 2011. O almeno, questa è la proposta fatta dai socialdemocratici in campagna elettorale. I cinesi non hanno mai avuto problemi di scarsità di manodopera, anche in campo militare. Hanno un esercito di terra di un milione e settecentomila uomini e possono inviare in Afghanistan un contingente grande a piacere. Possono riempire i buchi nelle maglie della Nato o anche risolvere da soli qualsiasi questione sulla densità di truppe. C’è chi mette in dubbio la capacità dell’Esercito popolare di lavorare assieme a partner internazionali. In realtà, la Cina ormai compie di routine esercitazioni internazionali che di solito hanno come scenario proprio il confronto con forze terroriste. L’ultima – “Missione di pace 2009” – l’hanno finita a luglio, con i russi. Un centinaio di carri e cannoni semoventi, forze speciali, paracadutisti, caccia in appoggio dall’alto: tutti impegnati per cinque giorni nella base tattica di Taonan, provincia di Jilin, a “liberare” una città controllata da una non meglio definita “guerriglia che vuole fondare un regime” (per esempio, viene da notare, i talebani). Altri osservatori sono dubbiosi: la Cina è un regime controllato da un partito unico, la Nato è l’alleanza militare squisitamente democratica, con la missione di lasciare in Afghanistan per l’appunto una democrazia autonoma. Come conciliare? Ma si tratta ormai di una critica futile. Il primo obbiettivo a breve termine dell’Amministrazione Obama è la stabilità prima che la democrazia, perché senza una mancherà l’altra. Nella zona controllata dagli inglesi soltanto 180 elettori si sono presentati alle urne il 20 agosto scorso, per paura di essere mutilati o uccisi dagli estremisti. Il pragmatismo impone di procurarsi prima le forze necessarie a contenere le minacce dei talebani e dopo, se è il caso, concedersi il lusso strategico di fare gli schizzinosi sul paradosso: truppe cinesi che difendono a Kabul un governo democratico e sorvegliano libere elezioni, fenomeni entrambi sconosciuti e impossibili nel loro paese di provenienza. Tanto non saranno le recalcitranti democrazie occidentali con i loro striminziti contingenti a risolvere la situazione: i sette irlandesi? Gli otto islandesi? I 70 sloveni? I 140 portoghesi, i 140 greci? In questi giorni Pechino ha ordinato la più grande esercitazione terrestre della sua storia: 50 mila soldati spostati in giro per il paese, anche su treni e aerei civili, per mettere alla prova la loro mobilità con tutto l’equipaggiamento e con poco preavviso. Chissà che cosa pensa Londra, che dopo sette anni in Afghanistan ha ancora problemi a schierare i suoi ottomila uomini ed è sempre alla ricerca faticosa dell’equipaggiamento più adatto. I cinici – i più sinceri? – sottolineano un altro punto terribile a favore dell’intervento di Pechino. I cinesi non hanno problemi sul fronte interno. Il generale americano che comanda tutte le operazioni in Afghanistan, Stanley McChrystal, sa che ogni sua decisione, la richiesta di più truppe oppure l’estensione della durata della missione, è vagliata in patria da un Congresso democratico nevrotizzato dal rapporto con gli elettori e da un’Amministrazione attentissima a fiutare il vento dell’opinione pubblica. McChrystal opera sotto la spada bizzosa di Washington. Se le perdite aumentano, se i talebani mettono a segno un colpo spettacolare, se la campagna estiva non ottiene in fretta i risultati sperati, il consenso per la guerra – già al minimo – crollerà così in basso che i politici si spaventeranno e cominceranno a chiedere il ritiro. I cinesi non hanno questo problema (chiamato anche: democrazia) e possono permettersi davvero di combattere per il tempo che serve. Poi ci sono gli osservatori ancora più cinici, che dicono che Pechino non interpreta la guerra come facciamo in occidente. McChrystal scrive linee guida ai suoi soldati in cui raccomanda di privilegiare il lato collaborativo della convivenza con gli afghani: conquistate i loro cuori e le loro menti (tanto che l’Economist ironizza: “E’ diventato un hippie?”). Manda sul campo team di antropologi, per decifrare i sottili cambiamenti di umore fra i clan che possono decidere la guerra. Dice al Time che preferirebbe “avere 1000 interpreti di lingua pashto in più, piuttosto che un’altra divisione di soldati”. Non si può invece prevedere come si comporterebbe l’esercito di Cina, una volta che sia schierato in campo. Verosimilmente, il suo sarebbe un approccio senza i complessi di colpa occidentali. I cinesi non sottilizzerebbero troppo sugli atavici rancori tra pashtun e minoranza hazara. Questo per quanto riguarda la parte Af di Afpak. Sul Pak, il ruolo della Cina può essere unico. Pechino ha un’amicizia sessantennale con Islamabad e le relazioni bilaterali sono buone a tal punto che una parte del Kashmir, la regione contesa con l’India, è occupata dalla Cina per conto del Pakistan. Si fidano di Pechino per la loro questione geopolitica più delicata, fino a rimetterla nelle sue mani. La Cina è il singolo paese con più influenza sul Pakistan e può riuscire dove Washington ha fallito e dove il resto del mondo nemmeno ha tentato: può convincere il Pakistan che assecondare l’amore segreto per i talebani è cosa cattiva. Gli interessi cinesi sono sempre stati una specie protetta a Islamabad, la più protetta in assoluto. Il governo presta un orecchio piuttosto distratto alle richieste americane, quegli yankee lontani che tirano fuori sempre la stessa storia dell’11 settembre e sono così creduloni da regalare ogni mese cento milioni di dollari in aiuti militari per garantirsi la lealtà dell’esercito. Ma lo stesso governo si mette sull’attenti quando parla la Cina. Nell’agosto 2008 due ingegneri cinesi che lavoravano a un ripetitore telefonico furono rapiti nelle aree tribali. Nel febbraio scorso, per ottenere il loro rilascio prima di una visita ufficiale a Pechino, il presidente Zardari ha ceduto in cambio il potere ai talebani in tutta la valle dello Swat. Una concessione che ha lasciato sbigottiti gli alleati occidentali, a cui poi ha dovuto “rimediare” con una campagna militare. Lo stesso assedio della Moschea Rossa, nel 2007, fu ordinato da Pervez Musharraf soltanto dopo che i seguaci avevano angariato alcuni lavoratori cinesi. Prima il presidente-generale aveva fatto finta di nulla. La Cina che cosa otterrebbe in cambio, dopo essersi ficcata nel ginepraio? Ha una prima ragione di grave ansia geopolitica. Il comitato centrale a Pechino teme la rivolta sempre sul punto di scoppiare nello Xingjiang, la provincia più grande del paese, a nord-ovest, al confine con Pakistan e Afghanistan e popolata dagli uiguri, maggioranza di etnia turcomanna e religione islamica. Per ora i disordini e le violenze sono state di natura strettamente etnica, in conflitto con la solita prepotenza colonizzatrice degli Han (è la stessa rivalità che a Lhasa fa bollire di rabbia i tibetani). A luglio, all’ultimo giro di proteste, ci sono stati centocinquanta morti e un migliaio di arresti. Ma in zona operano anche gruppi di estremisti filo al Qaida (a cui appartenevano i detenuti di Guantanamo, poi liberati, di origine cinese). Se la coloritura della rivolta nello Xingjiang diventerà islamista tendenza al Qaida, Pechino penserà ai problemi di oggi con nostalgia, come a un’Età dell’oro. Ai tempi del regime talebano aveva stretto un patto non ufficiale con Kabul: non addestrate cinesi da voi. Ma è chiaro che Pechino ha a cuore la stabilità dell’Afghanistan, come ha anche ripetuto più volte, e che in questo caso la sua visione delle cose coincide con quella dell’Amministrazione Obama e dell’Europa. Ci sarebbero anche, e non potrebbe essere diversamente quando si tratta con i cinesi, ottime ragioni economiche. La Cina ha già sborsato per sfruttare trent’anni l’immenso giacimento di rame di Aynak, a sud di Kabul. Ancora inesplorato, vale almeno 88 miliardi di dollari, più del doppio dell’intero prodotto interno lordo 2007 dell’Afghanistan. L’America fornisce la sicurezza con i suoi soldati, la Cina pensa già a sfruttare le risorse. Secondo il contratto – da tre miliardi di dollari – il 90 per cento della forza lavoro dovrà essere composto da afghani. A Kabul gongolano, “è la migliore strategia antiestremisti”, e si aspettano altri accordi commerciali del genere: in quanto a Pechino, senza dubbio non vorrà vedersi mangiare tutto dai talebani. C’è poi la questione del porto pachistano di Gwadar, sull’Oceano Indiano, adattato ai grossi pescaggi a spese di Pechino. Da lì il petrolio potrà arrivare in Cina via Afghanistan e poi Xingjiang, senza aspettare che le petroliere navighino attorno al continente indiano, e guai ai talebani che si mettessero di mezzo. E da lì tutte le mercanzie sottocosto della Cina potrebbero partire verso l’occidente, per la via breve. La guerriglia in Afghanistan deve finire, perché così conviene alla nazione confinante e al suo miliardo e mezzo di abitanti.

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