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Il Foglio Rassegna Stampa
11.09.2009 Guerra al terrorismo in Afghanistan
Perchè è difficile è estirpare Al Qaeda. Analisi di Fausto Biloslavo, Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 11 settembre 2009
Pagina: 5
Autore: Fausto Biloslavo - Daniele Raineri
Titolo: «La lunga strada dopo l'11/09 - Due regole fisse di al Qaida spiegano perché sarà una guerra generazionale»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/09/2009, a pag. I, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " La lunga strada dopo l'11/09 " e quello di Daniele Raineri dal titolo " Due regole fisse di al Qaida spiegano perché sarà una guerra generazionale ". Ecco gli articoli:

Fausto Biloslavo : " La lunga strada dopo l'11/09 "

 Talebani

Bala Baluk (Base Tobruk). “Capitano: un razzo, un razzo…” urla il caporal maggiore capo Carlo Aringhieri in mezzo al caos della battaglia. “Avevo appena visto un talebano che si stava piazzando per tirarcelo addosso con un Rpg. Un attimo dopo il razzo è arrivato con un boato. E’ scoppiato contro la casa dove eravamo asserragliati” racconta il parà del primo plotone Nembo. Trentaquattro anni, barba rossiccia, occhi chiari ha i muscoli di un vichingo. In realtà è una persona normale con a casa una moglie e un figlio che lo aspettano in provincia di Livorno. “Andrea farà 5 anni il 28 ottobre spero di essere tornato in Italia per il suo compleanno. La mia signora è siciliana, sangue caldo. Mi dice sempre che è gelosa della Folgore” spiega il sottufficiale. Sul cappellino color sabbia ha scritto “Ringhio”, il suo nome di battaglia. Il 25 luglio, con il primo plotone Nembo della 6° compagnia Grifi, gli hanno ordinato di andare a tirare fuori dai guai alcuni bersaglieri inchiodati dal fuoco dei talebani. Da El Alamein all’ostica provincia afghana di Farah “la sabbia è sempre la stessa” dicono i parà. Quella mattina, alle 7.40, sono accolti da una pioggia di mortai mentre avanzano verso la roccaforte talebana di Shewan in cerca di un deposito di armi. Un bersagliere rimane ferito, ma lo scontro più duro scoppia fra le case del villaggio abbandonate dai civili. “A 200 metri da noi c’era un muro alto come una persona – racconta “Ringhio” – Una cinquantina di insorti ci sparavano addosso all’impazzata con sventagliate di kalashnikov, che sollevavano sopra il riparo. Quando tiravano fuori la testa cercavamo di colpirli”. I parà, armati di fucili di precisione inquadrano il nemico con il turbante nero e premono il grilletto. “Ne abbiamo visti cadere diversi. In momenti del genere pensi solo mors tua vita mea, ma poi quelle immagini ti rimangono stampate nel cervello. Non te le dimentichi per tutta la vita”. La casupola con le pareti in fango e paglia dove sono intrappolati i bersaglieri viene scossa come un fuscello dai razzi dei talebani. “Continuavano a tirarci addosso. Allora prendo il Panzerfaust me lo piazzo in spalla e faccio fuoco aprendo una breccia nel muro che serviva da riparo agli insorti” ricorda Aringhieri. La battaglia continua con gli elicotteri Mangusta che attaccano dal cielo le postazioni talebane. A Shewan comanda mullah Sultan, un ex prigioniero di Guantanamo tornato a infiammare la guerra santa nella provincia di Farah al comando di 300 insorti. Suo figlio li guida in battaglia nel grande villaggio lungo la statale 517, soprannominata l’autostrada per l’inferno. Ogni volta che ci passi finisci su una trappola esplosiva o in un’imboscata. A Shewan i talebani hanno scavato gallerie e camminamenti che collegano le postazioni, spesso annidate fra le case con il rinforzo di sacchetti di sabbia. Alcuni cunicoli, lunghi fino a 400 metri, spuntano all’aperto fuori dalla roccaforte e servono come via di fuga. “Mi colpisce come vanno incontro alla morte. In Afghanistan sto facendo il mio dovere e so che pure io potrei non tornare, ma penso sempre al dopo, a una casa, a costruirmi una famiglia con la mia ragazza, Lucia. I talebani combattono come se non avessero futuro” spiega il primo caporal maggiore Gianluca Miola, 28 anni, di Taranto. Anche lui dei Grifi, la compagnia del 187° reggimento Folgore che conosce un solo motto: “Impavidi e bestiali”. Poco più di 100 ragazzi sotto le tende di base Tobruk, 140 metri per 40, nel distretto di Bala Baluk infestato dagli insorti. Alla mattina quando le “zanzare”, gli elicotteri che fanno la spola con il caposaldo avanzato, sorvolano la base sollevando la sabbia del deserto sembra un film. Il paesaggio attorno è lunare: la Ring road, una striscia d’asfalto che sembra perdersi nel nulla, i resti di una vecchia base sovietica con gli edifici ridotti a una groviera da anni di guerra e l’assurda piscina vuota, con tanto di trampolino in una specie di resort abbandonato. Con una media di 50 gradi, che quasi ti soffocano, i parà escono ogni giorno per strappare ai talebani il controllo del territorio. “Siamo sopravvissuti a un paio di battaglie, sette bombardamenti con razzi o colpi di mortaio e le trappole esplosive. I feriti sono stati una decina” sottolinea il capitano Gianluca Simonelli. Barba appena accennata, 31 anni di Roma, è il comandante della compagnia. Il 27 giugno un blindato Lince è saltato in aria su uno Ied, il nome in gergo per le trappole esplosive. “Al momento del botto ti senti volare ed entri in una specie di tunnel. Le orecchie ti fischiano senti l’odore di bruciato e il sapore di zolfo che ti entra in bocca, il sapore dello Ied”. Ringhio parla come se rivivesse le “urla dell’uomo in ralla”, il parà in torretta con il dito sul grilletto della mitragliatrice. Il più esposto con metà del corpo fuori dalla botola del veicolo d’acciaio di 12 tonnellate, che si è alzato da terra come un grissino. Per poi ripiombare giù con il peso di un macigno, mentre tergicristalli, taniche, pezzi di pneumatico volano dappertutto. E nell’abitacolo corazzato ci si tocca l’uno con l’altro, le gambe e le braccia per controllare di essere ancora interi. Il parà che era in ralla grida di dolore: “La schiena, la schiena”, ma sopravviverà senza conseguenze. Infine la voce alla radio, che fa tirare un sospiro di sollievo al resto del plotone: “Qui Ringhio tutto a posto. Siamo vivi”. I ragazzi saltati in aria a Bala Baluk ricordano un particolare: “Alessandro aveva un rosario di padre Pio. Prima di uscire, il giorno della trappola esplosiva, ci ha invitato a baciarlo dicendo: non si sa mai”. Non a caso su Facebook è nato il gruppo “Santo Lince”. Michele Pessolano, 32 anni, veterano delle missioni all’estero della Folgore, che in Afghanistan c’è già stato, nel 2003 a Khowst, vicino al confine pachistano. E’ “un vecchio”. “Ero sul mezzo davanti quando ho sentito il tonfo dello Ied. Una volta tornato indietro mi sono reso conto che avevamo schivato la trappola esplosiva di un centimetro” racconta il caporal maggiore capo. Sul braccio ha tatuato san Michele, protettore dei paracadutisti, con alcune aggiunte: elmo spartano, armatura da legionario e mantello dei visigoti. Fra le tende di base Tobruk circola la versione remixata della colonna sonora del film “Il Gladiatore”. Nelle cuffiette degli iPod la voce del generale Massimo Decimo Meridio tuona a ritmo di musica: “Al mio ordine scatenate l’inferno”. L’11 giugno i parà della compagnia Grifi l’inferno l’hanno provato sulla loro pelle. In colonna con l’Ana, l’esercito afghano escono sulla famigerata 517. Il primo razzo colpisce un pick up e i soldatini afghani saltano in aria come marionette senza fili. I talebani scatenano l’attacco con fuoco prolungato. Alla radio una voce urla “attenzione a destra, a sinistra” e alla fine “sono ovunque”. Alcuni arrampicati sugli alberi, altri dietro ai muretti, i più vicini a una cinquantina di metri. Sembra quasi che da un momento all’altro gli insorti possano assaltare i mezzi italiani. “Sparavo, sparavo fino a quando ho dovuto cambiare la canna della mitragliatrice Mg perché era rovente” racconta il caporal maggiore Daniele Errico, 28 anni, della provincia di Brindisi. Non dimenticherà mai “quel talebano vestito di nero, turbante e barba che ci tirava addosso. Si abbassava dietro un muretto, poi si rialzava e sparava, come se non avesse la minima paura del nostro volume di fuoco”. I proiettili da 12,7 millimetri delle Browning colpiscono decine di talebani, ma quelli non desistono. La colonna è inchiodata nel campo di tiro di 150 guerriglieri. Una pallottola buca la cassetta delle munizioni di Errico. “I colpi dentro esplodono – spiega il parà con gli occhi azzurri con ancora una piccola scheggia nel braccio – Quello che resta del proiettile talebano rimbalzato sulla cassetta l’ho trovato a battaglia finita dentro la giubba mimetica. Da quel giorno lo tengo sempre in tasca”. Un mitragliere fortunato, ma durante i 28 minuti di furiosa battaglia una bomba di mortaio colpisce il Lince del sergente Stefano Taggiasco. La granata esplode fra il bagagliaio non blindato e la ruota di scorta. Le schegge investono Tommaso Angelini, che risponde al fuoco dei talebani attaccato alla mitragliatrice sulla torretta del mezzo. Il primo caporal maggiore Fabio Saggiu, 24 anni, è al volante del blindato e guarda nello specchietto retrovisore: “Vedo un cadavere a terra, in una pozza di sangue. Penso che sia il corpo di Tommaso sbalzato dal mezzo per l’esplosione. Il sergente mi ordina di andare avanti. Sembra di vivere le scene di un dvd impazzito e mi chiedo, ma perché lo lasciamo lì?”. Invece il ferito è crollato dentro il blindato e inizia a gridare: “Ho perso la mano”. Una scheggia l’ha quasi tagliata a metà, ma è vivo anche se butta sangue dappertutto. “Il morto che avevo visto era dell’esercito afghano – racconta Fabio – Provavo pietà per lui, ma allo stesso tempo ho ringraziato il cielo che Tommaso fosse vivo. Ce l’avevamo fatta: tutti per uno, uno per tutti”. L’11 giugno c’è chi ha pensato al figlio che stava per nascere e chi non sapeva cosa dire quando un bambino di nove anni ha chiesto al padre “oggi i talebani vi hanno attaccato?”. Il sergente Taggiasco ha realizzato dopo, sotto una doccia a base Tobruk, che cosa era successo: “Siamo stati bravi, ma anche fortunati”. Ligure, 31 anni, ha le idee chiare sul mestiere del soldato e la missione in Afghanistan. “Prendiamo 133,40 euro al giorno per rischiare la vita. Chi lo fa soltanto per la paga è un fallito. Un operaio specializzato guadagna come noi e alla sera torna a casa” osserva il sergente nella piccola oasi d’ombra ricavata accanto alla tenda. “In questi posti si diventa fratelli. Si crea una sorta di seconda famiglia – spiega Taggiasco – Quando torniamo in Italia siamo il diversivo di una serata per gli amici. Un disco che racconta il conflitto in Afghanistan, ma alla fine interessa poco, si stufano e se ne dimenticano”. “Parliamoci chiaro: dopo l’11 settembre questa è una battaglia fondamentale per l’occidente – spiega senza peli sulla lingua il sergente – Se poi gli afghani abbracciano la democrazia bene, ma non dimentichiamo che in questo deserto corre la prima linea di difesa del nostro mondo”. Un fronte, quello della provincia di Farah, dove il 14 luglio è caduto Alessandro Di Lisio, 25 anni, dell’8° reggimento guastatori paracadutisti di Legnago. La bandiera della 22° compagnia Angeli neri è a mezz’asta a campo El Alamein, una fornace a cielo aperto alla periferia di Farah, il capoluogo provinciale. Alessandro era uno degli “occhi” della squadra “combat” di ricognizione avanzata, che dà la caccia alle trappole esplosive e ai trabocchetti dei talebani. La squadra verrà ribattezzata Ares, il dio della guerra, in ricordo del parà caduto. Prima della missione Alessandro aveva rotto con la fidanzata, lei non voleva che partisse per l’Afghanistan. Il destino ha riservato una sorte diversa ai tre parà della 4° compagnia Falchi – motto: “Non conosco l’impossibile” – finiti nel mirino di un attacco suicida. Nel primo pomeriggio del 3 luglio il caporal maggiore Davide Grasso, 27 anni, di Acireale, era al volante del suo Lince alla periferia della città di Shindad. “Nel mezzo davanti a noi l’uomo in ralla ha intimato l’alt ad un minivan carico di sacchi. Il guidatore era vestito di bianco e ha accostato – racconta il miracolato – Giunto alla sua altezza, a 60 chilometri orari, ho sterzato per allargare, come da procedura, e lui si è fatto saltare in aria. Ricordo un fragoroso taboom e il fumo grigio che ha subito avvolto il blindato”. Il Lince si sbilancia avanzando su due ruote, poi ruota di 180 gradi e si ribalta sul fianco strisciando all’indietro. “Ho visto la fiammata giallognola dell’esplosione. I pezzi del minivan sono volati dappertutto e le budella dell’attentatore sono finite spiaccicate sul nostro parabrezza” racconta il caporal maggiore capo Alessio Leoni. Trent’anni, della provincia di Sassari, era a bordo del mezzo che seguiva. Nel Lince ribaltato il tenente Michele Mascolo, 25 anni, foggiano, non riesce ad uscire. Il rallista è salvo perché al momento della sterzata vicino al terrorista si è infilato a “tartaruga” nell’abitacolo. A parte qualche escoriazione nessuno è ferito, ma scoppia un incendio nel vano motore. I parà intervengono con gli estintori e anche il tenente viene tirato fuori incolume. Del kamikaze è rimasto solo un piede, che un cane stava portandosi via e la spina dorsale schizzata a 150 metri. Per sdrammatizzare i sopravvissuti all’attentato hanno soprannominato il terrorista “Jonathan”, come il figlio Pierino di una famiglia sfigata visto in un programma comico su Antenna Sicilia”. Il 20 agosto, il giorno delle elezioni presidenziali in Afghanistan, i Falchi combattono a fianco dei bersaglieri. I talebani sparano dai tetti del villaggio di Pust i Rod. Via radio si sentono le fasi concitate dello scontro. I parà chiamano l’appoggio aereo e i piloti dei caccia inquadrano le sorgenti di fuoco. Dal comando non è concessa l’autorizzazione a bombardare per evitare vittime civili. Saggia decisione anche se i talebani sono abili ad utilizzare la gente dei villaggi come scudi umani. Il conflitto in Afghanistan è spietato e insidioso.

Daniele Raineri : " Due regole fisse di al Qaida spiegano perché sarà una guerra generazionale "

 Al Qaeda

Roma. Ci sono due regole fisse che governano il comportamento di al Qaida e che spiegano perché la lotta per batterla prenderà il tempo di generazioni. La prima regola è che non conta quanto è forte lo schieramento in campo, con l’intervento militare di molte nazioni e con l’aiuto di tecnologia avanzatissima: distruggere totalmente al Qaida non è possibile. Al Qaida non si può annientare del tutto, piuttosto si può spingerla via, da un’altra parte. Resta sempre un residuo minimale di focolaio attivo che emigra lontano, in salvo, per ricominciare. E’ la storia degli ultimi otto anni dopo l’11 settembre. Quando gli americani invasero l’Afghanistan per cacciare via il regime talebano, inflissero perdite durissime all’organizzazione terrorista. Eppure un troncone sopravvissuto, quello saudita- egiziano, fedele a Osama bin Laden, dalle sue basi di Kandahar, Jalalabad e Kabul nel centrosud del paese si trasferì nelle aree tribali del Pakistan. Un’altra organizzazione, “la seconda al Qaida”, il ramo giordano- siriano-palestinese guidato da Abu Mussab al Zarqawi, con base a Herat, dall’altra parte del paese, attraversò il vicino confine con l’Iran per mettersi in salvo e poi nell’estate del 2002 s’infiltrò in Iraq, per prendere in trappola gli americani che si preparavano a spodestare Saddam. Va sempre così. Colpire al Qaida vuol dire spesso distruggerla al 90 per cento, ma un dieci per cento radioattivo resiste sempre e si muove. Quando gli americani nel 2003 presero il Kurdistan iracheno, dove si nascondeva la banda di Zarqawi, quelli si spostarono a Fallujah. Quando nel novembre del 2004 i marine espugnarono Fallujah, i superstiti si sparsero verso ovest, a Ramadi, nella capitale Baghdad e verso est, nella provincia di Diyala: ovvero le tre zone in assoluto più violente dell’Iraq degli anni seguenti. Ora che i droni stanno rendendo difficile la vita dei leader in Pakistan, si assiste a un moto inverso, verso Baghdad – dove infatti la violenza è ripresa – e verso la Siria. Il successore di Zarqawi, Essa l’egiziano, oggi da Damasco guida le stragi contro Baghdad. La seconda legge dice che al Qaida non si regge mai da sola. Dovunque opera, riceve l’appoggio di almeno due nazioni: una che finanzia e un’altra che tace. Ai tempi dell’11 settembre, aveva a disposizione uno stato, l’Afghanistan, e aiuti da Pakistan e Arabia Saudita. Al Qaida in Iraq godeva dell’appoggio tacito della Siria e di finanziamenti sauditi e anche – per tortuose ragioni di geopolitica – dall’Iran. In Somalia è aiutata dall’Eritrea e dallo Yemen. Per queste due regole costanti, la dottrina d’intervento oltremare dell’America prosegue, anche oltre la fine del mandato di Bush.

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