Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/09/2009, a pag. 17, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "La lettera di Shalit: la mia prigione da incubo".


GERUSALEMME — Lettera dal sottosuolo: «Mamma e papà, fratelli e amici, shalom. La mia salute peggiora di giorno in giorno, sto lottando soprattutto con le emozioni e questo mi sta gettando in depressione. Aspetto che finisca questo incubo, insopportabile per un essere umano, e che io sia liberato da questa prigione isolata e blindata...». Sono le prime righe scritte da Gilad Shalit, il caporale israeliano ostaggio di Hamas da più di tre anni. Arrivarono alla famiglia due o tre mesi dopo la cattura, estate 2006, tramite Croce Rossa ed egiziani, e ora diventano pubbliche assieme al racconto di che cosa sarebbe la sopravvivenza dentro quella gabbia. In un bunker sotterraneo e minato. Sei guardiani intorno, gli altri a rotazione. I primi mesi ferito e trattato con durezza, poi attanagliato da quella sindrome di Stoccolma che spinge la vittima a simpatizzare col carnefice e il carnefice, talvolta, a consolare la vittima. Fra attacchi di panico. Assenza. Sguardi vuoti. Inutili scioperi della fame. E un’insonnia acuta che la notte, spesso, nel silenzio che lo circonda, fa sobbalzare Gilad e gridare come un bambino al buio: «Mamma!... Mamma! ...».
La lettera, tutte queste cose non le dice. Sono solo quattordici righe, le ultime probabilmente dettate dai carcerieri («spero fortemente che il mio governo s’interessi in mio favore e risponda positivamente alle richieste dei Mujaheddin »): contengono un appello all’allora premier Ehud Olmert e al suo ministro della Difesa, Amir Peretz, e il sogno di festeggiare a casa il ventesimo compleanno. Tutto qui. Da dove arrivano, allora, le altre notizie? È stata la famiglia Shalit a dare la lettera a un giornalista israeliano, Suleiman a-Shafi, ben introdotto in Hamas.
L’impegno era che restasse nel libro, Imprigionato , che a-Shafi sta per pubblicare. Ma siccome si sa come vanno le promozioni editoriali, senza troppi scrupoli e nello sgomento dei familiari, l’anteprima del manoscritto è finita marted ì sera in un talk-show e subito sulle prime pagine dei giornali. Con una sfilza di particolari sulla prigionia che a-Shafi giura essere veri. Per esempio, quello del bombardamento di Gaza: per mettere al sicuro il prezioso ostaggio, in gennaio, Hamas l’avrebbe caricato su un’ambulanza e spostato di fretta, sotto il naso delle truppe israeliane che avevano appena invaso la Striscia.
Di Shalit non ci sono certezze, però. Nemmeno che sia vivo.
Tre, forse quattro lettere e un’audiocassetta, giunte con la mediazione dei francesi e del vecchio presidente americano Jimmy Carter. L’ultima traccia del soldato è del giugno 2008. Nessun’organizzazione internazionale ha mai potuto visitarlo. Le trattative con Hamas, mediatori i tedeschi, languono al Cairo. Si dubita perfino che sia a Gaza: proprio in questi giorni sono diventati pubblici i documenti sul caso di Ron Arad, pilota catturato in Libano negli anni ’80 e mai più tornato, e s’è scoperto che il poveretto fu portato in Iran e rimase vivo nove anni. C’è il buio, oltre il muro di Gaza. E a chi sta fuori, non restano che i racconti del libro di a-Shafi. D’un giorno, quando un secondino s’avvicinò al ragazzo e gli disse senza pietà: «Il tuo governo ti preferisce morto...». Di Gilad, che scoppiò in un pianto esausto: «Non voglio morire qui dentro... » .
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