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La Stampa Rassegna Stampa
06.09.2009 Dall'Europa dell'Est verso la Palestina
nel racconto di A.B.Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 06 settembre 2009
Pagina: 28
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Viaggio all'inizio della nostra storia»

A.B.Yehoshua rievoca un viaggio alla ricerca delle radici, dopo la lettura di quello splendido libro che è " Gli scomparsi" di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza ed.). Sulla STAMPA di oggi, 06/09/2009, a pag.28, con il titolo " Viaggio all'inizio della nostra storia ".

 A.B.Yehoshua e la copertina del libro "Gli scomparsi" di Daniel Mendelsohn

L’importante e originale libro di Daniel Mendelsohn Gli scomparsi è servito d’ispirazione alla mia famiglia per un viaggio alla ricerca delle proprie radici nell’Europa dell’Est.
Daniel Mendelsohn, un classicista americano, spronato dai ricordi d’infanzia si è assunto un impegno particolare: scoprire come furono uccisi durante la Shoah sei dei suoi famigliari della cui morte il nonno si era sempre sentito colpevole. Non gli bastava sapere che erano scomparsi nell’Olocausto. Voleva fare il possibile per scoprire com’era avvenuta la loro morte per sentirsi vicino alle vittime, provare il loro terrore, concedere loro spazio emotivo e, in un certo qual modo, accompagnarli negli ultimi istanti di vita. Per raggiungere lo scopo Mendelsohn e il fratello si sono imbarcati in una complessa operazione investigativa: viaggiando tra continenti diversi e interrogando i sopravvissuti ne hanno incrociato le testimonianze e non si sono dati pace fino a che non hanno scoperto luoghi e dettagli reconditi.

Una cantina servita come ultimo rifugio o un albero contro il quale era stata messa una delle vittime prima di essere giustiziata. E hanno fatto tutto ciò con la determinazione e la perseveranza scientifica di un ricercatore che non si concede riposo fino a che non giunge alla verità.
Naturalmente io e i miei famigliari abbiamo letto parecchi libri sulla Shoah, ma il romanzo di Mendelsohn ci ha turbato in modo particolare. La morte di quegli estranei ha cessato di essere anonima, si è trasformata in qualcosa di personale. E a quel punto è nato il bisogno di seguire le tracce di chi era rimasto in vita, ovvero di recarci nell’Europa dell’Est e di ritrovare i luoghi dai quali giunsero prima della guerra i genitori di mia moglie, Berta e Nachum, che contrariamente alla gran parte degli altri ebrei decisero per tempo di assumersi la responsabilità del proprio destino e anziché trasferirsi in una nuova nazione della diaspora abbracciarono la rivoluzione sionista per cercare di normalizzare l’esistenza ebraica nella terra di Israele.
Giunsero qui una decina di anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e non in seguito a una lungimirante profezia del tremendo futuro che aspettava gli ebrei. Nessuno poteva prevedere l’orrore che sarebbe seguito. Entrambi appartenevano a famiglie benestanti e gran parte dei loro congiunti vedeva in quella decisione una sconsiderata avventura. Eppure, a dispetto di tutto, i due giovani preferirono lasciare i floridi paesi in cui erano nati per arrischiarsi a costruire una nuova vita in una terra lontana e desertica. Dissero basta allo studio di antichi testi ebraici, a sempre nuovi espedienti per riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile, e scelsero di mettersi alla prova in una realtà che fosse completamente loro.
Nachum, suo fratello e le sue due sorelle nacquero e crebbero in una tenuta di campagna grande e fiorente nei dintorni di Suwalki, al confine tra la Polonia e la Lituania, dove i giovani ebrei venivano addestrati ai lavori agricoli a cui avrebbero dovuto attendere nella terra di Israele. I quattro ragazzi lasciarono la famiglia negli anni Venti ed emigrarono nell’allora Palestina. Nachum, mantenendo il ricordo della propria infanzia rurale, divenne medico veterinario. I genitori rimasero nella tenuta anche dopo la partenza dei figli, forse per un senso di responsabilità nei confronti dei numerosi braccianti che vi lavoravano, e quando cercarono di raggiungerli in Israele era ormai troppo tardi. Le autorità britanniche avevano vietato l’ingresso agli ebrei e i due vecchi rimasero intrappolati e perirono nell’Olocausto.
Berta, la madre di mia moglie, apparteneva a una famiglia benestante di mercanti di Vilnius. Lei e la sorella giunsero nella terra di Israele agli inizi degli anni Trenta, mentre altri due fratelli e i genitori rimasero a Vilnius. Questi ultimi e uno dei ragazzi furono uccisi nel ghetto e solo il fratello più giovane riuscì a fuggire attraverso le fognature nella foresta dove si unì ai partigiani con i quali rimase fino alla fine del conflitto. Sorprendentemente, per quanto sia anche comprensibile, i genitori di mia moglie, così come i loro fratelli e sorelle, non vollero mai tornare a visitare i luoghi in cui erano nati e cresciuti, nemmeno per cercare di scoprire come erano morti esattamente i loro congiunti. La nube nera e orribile della Shoah oscurava i luoghi che si erano lasciati alle spalle e dato che la maggior parte degli ebrei era stata sterminata non avevano nessuna voglia di incontrare un vicino lituano o polacco, né tale incontro avrebbe avuto alcun senso. La connivenza, attiva o passiva, della gente locale con gli aguzzini nazisti aveva reso tutti sospettabili di collaborazionismo e non c’era nessun desiderio di avere contatti con loro, nel bene o nel male.
Di ritorno da questo nostro entusiasmante viaggio ho espresso il mio apprezzamento per le bellezze di Vilnius allo zio di mia moglie, il giovane ex partigiano ormai ottantaseienne che non era mai più tornato a visitare la propria città natale. Lui ha ribattuto: «Vilnius con le sue magnifiche chiese, i suoi giardini, le sue foreste, non è altro che un gigantesco camposanto in cui non vi sono nemmeno delle lapidi. Per questo non mi è mai interessato tornarci».
E così, i figli nati in Israele, nonostante per parecchi anni abbiano sentito qua e là descrizioni dei luoghi da cui provenivano i genitori, non hanno mai provato il desiderio di visitarli fintanto che costoro sono rimasti in vita. In anni recenti, però (e questo fenomeno non è prerogativa esclusiva della mia famiglia) forse sentendosi prossimi all’ultimo stadio della loro vita, avvertono il bisogno di recarsi nei luoghi abbandonati dai genitori in gioventù. E così si organizzano gruppi di anziani israeliani ansiosi di ritrovare tracce di precedenti generazioni in nazioni a loro sconosciute dell’Europa dell’Est. Non necessariamente per rinvenire la presenza di persone morte, come nel caso di Daniel Mendelsohn, ma piuttosto quella di gente viva.
Io, che ho radici a Gerusalemme, mi sono unito con molto interesse a mia moglie e ai suoi famigliari - tutti anziani incanutiti - nel loro viaggio in Lituania e Polonia.
Un viaggio di questo tipo, che di solito dura pochi giorni, non può essere compiuto senza una guida, e nei paesi dell’Est è comparsa negli ultimi anni una nuova figura di accompagnatore: solitamente un ebreo locale (anche se capita di imbattersi in non ebrei) che oltre ad avere padronanza della lingua del posto - lituano, polacco o russo - possiede una buona conoscenza dell’ebraico e dell’inglese, è esperto dei luoghi, se la cava egregiamente negli spostamenti e sa rinvenire, anche grazie a documenti scovati in archivi locali, tracce della presenza ebraica del passato. In altre parole è in grado di identificare in una normale via commerciale di Vilnius l’esatto punto in cui iniziava il ghetto ebraico, l’ubicazione di case andate distrutte, e sa dare informazioni su una sinagoga che non esiste più. Una guida simile deve avere la capacità di ricostruire con l’immaginazione reperti di cui non è rimasto nemmeno il ricordo. Deve naturalmente conoscere la storia dei paesi in cui gli ebrei cercano le loro radici senza tuttavia mostrare cedimenti emotivi o rancore nei confronti della gente del posto per via della passata collaborazione con i tedeschi. E ovviamente deve conoscere gli archivi presenti nei vari luoghi e mantenere buoni rapporti con gli impiegati perché questi rintraccino per i suoi clienti i vecchi nomi delle vie, l’ordine di successione dei numeri, le scuole in cui i loro genitori avevano studiato o il nome di uno zio scomparso nella Shoah di cui si conosce l’esistenza ma che non è mai stato menzionato.
E in effetti gli impiegati degli archivi da noi visitati, lituani o polacchi che fossero (che se non sbaglio sono dipendenti statali) hanno fatto del loro meglio per rispondere alle domande dei membri del nostro gruppo. Hanno aperto i volumi riguardanti la comunità ebraica antecedenti la seconda guerra mondiale e tra le migliaia di nomi con accanto la sola data di nascita (quella della morte, avvenuta nel corso di un eccidio in una foresta o in un campo di sterminio, è sconosciuta) si sono sforzati di cercare quello di uno zio, di una via, o dei successivi proprietari della tenuta perché toccassimo con mano l’esistenza di persone ormai scomparse, un passato che quelle stesse persone non volevano ricordare né conoscere.
La nostra guida era un ebreo basso di statura, sui cinquant’anni, scapolo, con un cappellino su cui spiccava la parola «guida» in ebraico. Indossava una camicia militare israeliana con stampato il simbolo di Tsahal, lasciatagli in regalo da un gruppo di ufficiali israeliani e dalla quale faceva fatica a separarsi. Era un uomo strano e persino misterioso, con un immenso bagaglio di conoscenze e una straordinaria capacità di orientamento. Ha saputo condurci alla casa nella quale nacque e visse Berta prima di emigrare in Israele e anche nella fertile e verdeggiante tenuta polacca nella quale crebbe Nachum.
L’emozione di mia moglie, di sua sorella e dei loro cugini è stata enorme. Ogni dettaglio era importante ai loro occhi. Si sono aggirati a lungo nelle case dei genitori osservando ogni angolo e particolare, insaziabili nel desiderio di vedere e respirare l’aria del luogo. Nella tenuta di campagna hanno avviato una lunga conversazione con i contadini polacchi cercando di attingere dettagli della vita che si conduceva lì più di novant’anni fa. Un cucchiaino d’argento con il monogramma della famiglia in lettere ebraiche è stato per loro un reperto di inestimabile valore. Senza dubbio il grande amore per i loro genitori ha ammantato quei luoghi di grande bellezza e significato. È stato come se un cerchio, rimasto inconsapevolmente aperto troppo a lungo, si fosse chiuso.

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