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Il Foglio Rassegna Stampa
05.09.2009 Ritratto dela ministra-falco di Ahmadinejad
di Tatiana Boutourline

Testata: Il Foglio
Data: 05 settembre 2009
Pagina: 5
Autore: Tatiana Boutourline
Titolo: «La figurina di Ahmadinejad»

Sul FOGLIO di oggi, 05/09/2009, a pag. V, un ritratto del nuovo ministro della sanità iraniano, Mazrieh Vahid Dastjerdi, l'unica donna "falco" scelta da Ahmadinejad, scrito da Tatiana Boutourline, dal titolo " La figurina di Ahmadinejad".

Mazrieh Vahid Dastjerdi

C’è solo una cosa più irritante per un’iraniana di un occidentale che dice: “In fondo te le cavi meglio di una saudita”. Ed è un altro occidentale che si rallegra per te perché una donna è il nuovo ministro della Sanità in Iran. Se bastasse essere femmine per spandere emancipazione e speranza, Marzieh Vahid Dastjerdi sarebbe l’unica buona notizia di questa furibonda estate persiana. Sfortunatamente la faccenda è più complessa e, salvo segreti carismi taumaturgici, la nuova figurina dell’album di Mahmoud Ahmadinejad sarà contagiata dalla sindrome della signora Gorji. Konrad Lorenz lo avrebbe chiamato “imprinting”. Monireh Gorji fu la prima e le altre le cinguettano dietro. Era l’agosto del 1979 quando fu eletta al Consiglio degli Esperti, l’unica donna che avrebbe avuto l’onore di riesaminare la Costituzione della Repubblica islamica. A marzo l’ayatollah Khomeini aveva già imposto il velo a tutte le impiegate degli uffici governativi. La legge del 1967 sulla protezione della famiglia – che concedeva alle donne il diritto di chiedere il divorzio, restringeva le maglie della poligamia, proteggeva le madri in caso di lotta per la custodia dei figli ed elevava l’età del matrimonio per maschi e femmine – era appena stata sospesa. C’era ancora chi si illudeva che quelle non fossero che temporanee scosse di assestamento e quando Gorji prese posto nell’Assemblea, molte aspettative si posarono su di lei. Le linee rosse del regime avanzavano di giorno in giorno e le femministe iraniane confidavano che l’islamismo militante di khanoum (signora in farsi) Gorji si traducesse in una fiera rivendicazione di giustizia rivoluzionaria. Del resto non era forse stato Khomeini il 12 novembre del ’78 a dichiarare a un gruppo di reporter tedeschi: “Queste voci che avete sentito sulla posizione delle donne nel futuro governo islamico sono solo propaganda ostile. Nella Repubblica islamica le donne avranno libertà completa nella loro istruzione e in tutto quello che fanno, proprio come gli uomini”? Khanoum Gorji lo ricorderà, Khanoum Gorji parlerà, si diceva. Poi la segregazione si abbatté sulle università, fu sancito che le donne non sarebbero più state giudici, il velo divenne una divisa obbligata per tutte ovunque e la “libertà completa” si dissolse come un miraggio nel deserto di Dasht-e-Kavir. I sogni naufragarono uno dopo l’altro e la professoressa continuò a non proferire verbo. Quando infine alzò gli occhi dallo scranno per convenire che “le sue povere sorelle erano sì meno raffinate e più primitive intellettualmente”, ma ciò era dovuto “a una mancanza di educazione e di istruzione e non a una congenita inferiorità”, fu subito zittita dall’ayatollah Saddughi. Se le donne volevano l’eguaglianza avrebbero dovuto lavorare con gli uomini per costruire ponti, strade e canali e non aspirare a fare le segretarie. Gorji non osò replicare e Saddughi proseguì: “Supponiamo che si scelga una donna qualificata per il ruolo di presidente o primo ministro. Un giorno ci accorgiamo che il suo ufficio è chiuso. Chiediamo: perché? Ci viene risposto che khanoum la sera precedente ha dato alla luce un bambino. Una simile circostanza ci farebbe piombare nella vergogna”. Non sappiamo se l’unica khanoum presente a quel punto si morse la lingua o sentì le guance avvampare di stizza. La sua solitudine non aveva testimoni e l’unica certezza è che al vetriolo delle femministe inferocite Gorji non trovò di meglio che rispondere: “Io non sono una schiava né delle donne né del popolo, io sono la schiava di Dio”. Nello scorrere i volti delle signore di potere si trovano donne più pugnaci della professoressa. Zahra Eshraghi, nipote di Khomeini e moglie del fratello di Khatami, ha confessato al New York Times che se potesse non porterebbe il velo e che le iraniane dovrebbero essere libere di scegliere. Faezeh Hashemi, figlia del potente mullah-tycoon Hashemi Rafsanjani, è stata per qualche stagione il simbolo della “rivoluzionaria liberata”, una che sotto il chador indossa stivaletti e blue jeans e non ha paura di ostentare la sua consapevolezza in una cultura che predica come mantra la modestia e il riserbo. Azam Taleghani, figlia di ayatollah e membro del primo Parlamento della Repubblica islamica, ha contestato molte interpretazioni del Corano bollandole come maschiliste e patriarcali e ha offerto una nuova lettura dei testi sacri. Nel 1997 ha sfidato l’establishment candidandosi alle presidenziali. “Non volevo concorrere – ha raccontato – Ho pensato fosse giusto cogliere l’attimo e fissare i termini della questione”. Tutte queste signore e molte altre combattive donne-parlanti della Repubblica islamica hanno in comune un solido pedigree rivoluzionario. Sono figlie, sorelle e mogli di mullah combattenti e quest’origine permette loro di dilatare i confini della libertà, ma le loro ribellioni difficilmente sconfinano in territori lontani: le donne della Repubblica islamica danno scandalo parlando di salute femminile, istruzione e sport (Hashemi). Raramente si sentono abbastanza sicure da avventurarsi in ambiti come la politica estera e l’economia e dietro i jeans continuano ad albergare pensieri poco ardimentosi per delle ribelli di professione. “L’amore prima del matrimonio non dura. Uno dei problemi – ha spiegato Hashemi – è che le donne aspettano troppo prima di sposarsi”. Secondo la paladina degli artisti e degli intellettuali, “una ragazza, invece, è matura già a 13-14 anni, se aspetta troppo non avrà molti corteggiatori e le sue aspettative cresceranno a dismisura”. Molto prima che Ahmadinejad irrompesse sulla scena come un elefante in un negozio di cristalli, Khatami aveva intuito che per il suo governo non ci sarebbe stato miglior biglietto da visita di un volto femminile. Il ministro degli Esteri Kharrazi diede indicazione alle funzionarie e alle mogli in trasferta di adottare anche nell’abbigliamento uno stile sobrio e appropriato, modesto certo, ma soprattutto meno severo agli occhi degli stranieri. Il capo velato sì, il rupush (soprabito) o il manteau sopra, quanto al chador nero integrale, invece, meglio soprassedere. Negli anni del “dialogo tra le civiltà” di Khatami, Massoumeh Ebtekar, 36 anni, madre di due bambini con un dottorato in immunologia fu nominata vicepresidente per l’Ambiente. Era la prima donna della Repubblica islamica a entrare a far parte di un governo e i giornalisti stranieri in visita facevano la fila per incontrarla: “E’ la donna più importante della sua Amministrazione”, si leggeva negli articoli senza badare al fatto che l’unica signora dell’Amministrazione Khatami era lei e che la sua influenza era di poco superiore a zero. Ebtekar aveva molte carte in regola per diventare l’ambasciatrice della “democrazia islamica” tanto cara al suo presidente. Anzitutto era una donna, e questo di per sé ingentiliva l’immagine arcigna della Repubblica islamica, una prima della classe puntuale e precisa con un’ottima memoria esercitata sui discorsi di Khatami. Come la figlia di Rafsanjani, nutriva una passione per gli stivali e indossava tailleur di buon taglio che non la facevano sfigurare al forum di Davos. Il suo inglese perfetto rivelava un convincente accento americano con cui discettava amabilmente di lotta all’inquinamento con funzionari stranieri pronti allo sbadiglio. La vivacità non era il suo forte, ma su carta il difetto non incideva e sarebbe stata quasi perfetta se non fosse stato per una macchia nel curriculum. Nel 1979 la composta riformista era una teenager tutta velo e furore tornata a vivere in Iran dopo sei anni in un placido sobborgo borghese di Philadelphia. Quando l’ambasciata americana fu occupata dai militanti della linea dell’imam, lei si offrì con entusiasmo di rappresentarli. Divenne la voce e il volto dei sequestratori. A quel tempo nessuno la conosceva come Massoumeh Ebtekar. Con i prigionieri americani e durante le numerose apparizioni televisive si faceva chiamare Mary. Gli ostaggi, invece, l’avevano ribattezzata “Tiger Lily”, sapevano che il suo vero nome era Nilufar, troppo persiano, antico e floreale per un’amazzone islamica che infatti scelse di rinascere con il più consono Massoumeh (che significa donna innocente). Di tanto in tanto il passato è tornato a tormentarla non con sensi di colpa, tutt’altro, perché Ebtekar va fiera del suo percorso, piuttosto con l’imbarazzo di coniugare la retorica dei buoni sentimenti dell’ex presidente-filosofo Khatami con un’esperienza un po’ ruvida per la sensibilità occidentale. Incalzata dal corrispondente di Abc news che le ha chiesto: “Avrebbe potuto prendere in mano una pistola e uccidere gli ostaggi?”, Mary-Nilufar-Massoumeh ha risposto: “Yes of course”. Nel solco di Khatami, Ahmadinejad si è lanciato alla conquista dell’universo femminile, un cammino lastricato di ostacoli perché nel suo primo mandato il suo rapporto con le signore è stato complicato da uno scivolone dopo l’altro e i gesti con cui sperava di accaparrarsene l’indefessa devozione – l’aperturaprimis – gli sono solo valsi le aspre reprimende del clero conservatore di Qom. Appena eletto sindaco di Teheran, ha licenziato l’unica donna a capo di un distretto della capitale. Durante la prima campagna elettorale per la presidenza ha chiarito la sua posizione riguardo al lavoro femminile: “Le donne possono essere utili in alcune aree”, ma il loro maggior talento “è donare amore e sostegno”, in sintesi meglio che si dedichino a questo e, una volta occupata la poltrona di Khatami, nessuno si è sorpreso che la sua squadra fosse tutta al maschile. Il problema è che, pur non volendo femmine tra i piedi, Ahmadinejad desidera fortissimamente il loro voto, conscio che l’“amorevole sostegno delle donne” è merce quanto mai preziosa in tempi turbolenti di rivoluzioni e contro-rivoluzioni. Siccome poi il gusto della provocazione e dell’eccesso è qualcosa a cui proprio non sa rinunciare, ha pensato che il suo bel gesto verso il gentil sesso doveva valere l’ investimento. Altro che Khatami e scialbi riformisti! Ahmadinejad ha presentato al Parlamento non una, ma tre candidate per tre ministeri, la probabilità che il Parlamento le bocciasse tutte o al massimo ne salvasse solo una erano alte e il presidente si sarebbe comunque presentato come il politico che ha più creduto nei loro talenti. Non restava che scegliere le sue signore Gorji. Fatemeh Ajorlou, infermiera al fronte durante la guerra Iran-Iraq, è vista di buon occhio dai pasdaran verso i quali nutre un’autentica venerazione. In queste settimane si è indignata con quanti hanno ipotizzato violenze e stupri nelle carceri iraniane. “Accuse – ha sentenziato degli stadi di calcio alle donne in che arrivano da gente collegata alla Casa Bianca, a Buckingham Palace e all’Eliseo”. Proposta per il dicastero del Welfare ha conquistato i falchi proponendo una legge (bocciata dal Majlis) che avrebbe consentito agli uomini di contrarre un secondo matrimonio senza il consenso della prima moglie, ma poi è stato rivangato a più riprese un caso di corruzione che l’aveva sfiorata e si è capito che l’ipotesi Ajorlou non si sarebbe mai concretizzata. Susan Keshavarz presentata come la possibile titolare del ministero dell’Istruzione è partita ancora più svantaggiata. Voci insistenti hanno sottolineato la cordialità dei suoi rapporti con lo sconfitto candidato riformista Mir Hossein Moussavi. L’unico sponsor era la tv di stato che l’ha descritta come “un’abile filosofa che da anni si occupa di disabilità infantile”. Non è bastato. L’unica signora sopravvissuta è stata Marzieh Vahid Dastjerdi, neo titolare del dicastero della Sanità. Delle tre candidate è quelle che ha suscitato minore ostilità. Come Monireh Gorji ha insegnato non a scuola, ma all’università, cinquant’anni, ginecologa, ex parlamentare, nel 1998 ha caldeggiato l’istituzione di ospedali femminili e norme più stringenti per l’applicazione della sharia in tutti i presidi sanitari. Tra le deputate iraniane c’è chi spera che possa combinare qualcosa di buono “perché nel frattempo è molto cambiata” e chi invece la liquida semplicemente come “inoffensiva”. Se non deludessero tanto per il solo fatto di esserci e di tradire sistematicamente le attese, queste donne troppo spesso unidimensionali con la sharia preconfezionata come risposta a qualsiasi rilievo di incongruenza farebbero ancora più malinconia. Perché non è politically correct dirlo ma bisogna rimontare indietro di almeno un secolo per trovare khanoum che si siano battute con garbo, stile e lungimiranza per conquistare il loro posto nella storia. Nessuna scuola di diplomazia ha mai preparato le donne iraniane alle ragioni e alle astuzie della politica quanto la vita nell’harem. Dietro le mura della città reale di Arg-e-Soltonati, dentro il palazzo di Golestan e nelle sue dépendance regine, principesse, concubine hanno suggerito alleanze e liquidato primi ministri in una girandola di amori, riti religiosi, gelosie, figli, superstizioni , lezioni di musica, filosofia e francese. Nella corte di Naser al Din Shah Qajar, dove favorite leggendarie come Jayran e Anis al Dawla dettavano non soltanto i tempi della corte ma i fragili equilibri tra i plenipotenziari del re dei re, nessuna ha avuto un’influenza al contempo tanto dirompente e misconosciuta quanto Taj al Saltana (il suo nome è un titolo, “la corona dell’impero”). Figlia dello scià e della principessa Turan al Sultan la sua immagine campeggia provocante in molti quadri, scatolette e vassoi in papier mâché che illustrano la sensuale decadenza degli epigoni della dinastia Qajar. Nata tra i privilegi del palazzo di Golestan tra balie, eunuchi, tate e precettori, Taj con il suo spirito battagliero e anticonformista è l’antitesi di tutte le khanoum Gorji. Dopo un’infanzia breve e un matrimonio combinato con il figlio del comandante delle guardie reali, Taj sembra condannata a un destino solitario. Suo marito è irrequieto, umorale e infantile. Corre dietro ai suoi paggi e alle acrobati del circo russo. Cresciuta tra le seduzioni dell’harem, Taj non si capacita che il marito la ignori e resta sola davanti allo specchio ad ammirare i suoi lucidi capelli neri. Ma l’inerzia non le è congeniale. Taj sconvolge la corte andandosi a cercare la sua felicità con una serie di amanti, poi si toglie pubblicamente il velo, divorzia e si risposa, frequenta intellettuali e poeti, poveri e mercanti e fonda la prima associazione per la promozione dei diritti femminili. Nelle sue memorie – un misto tra le “Mille e una notte” e “Lanterne rosse” – scrive di amore e morte, economia e politica senza fare sconti a nessuno, men che meno a se stessa. Romantica, spericolata e brillante, è la madre spirituale delle ragazze con i capelli al vento descritte dal tesoriere dello scià Morgan Shuster nei giorni della rivoluzione costituzionale e una parente stretta di tutte quelle che, in questi giorni, sfidando le ombre dei servizi segreti vanno a deporre un fiore sulla tomba di Neda Agha Soltan.

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