Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/09/2009, a pag. 16, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " I dispetti tra Siria e Iraq nuovo ostacolo per Obama ".

Se nel Medio oriente si respira un'atmosfera di calma tesa, per utilizzare un eufemismo libanese, non è perché i problemi di sempre siano in vista di soluzione. Ma perché tutti i protagonisti attendono un segnale americano.
Quel segnale, se le indiscrezioni sono corrette, lo darà, a fine mese, all'assemblea generale dell'Onu, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Scartata la possibilità di procedere per gradi, percorso che in passato ha riservato grandi aspettative e cocenti delusioni, la Casa Bianca sta preparando un piano complessivo: giungere insomma al traguardo della pace senza tappe intermedie. Ne hanno parlato Obama e il presidente egiziano Hosni Mubarak; ne ha parlato l'inviato americano George Mitchell con il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, che si è impossessato del dossier al posto del discusso e quasi impresentabile capo della diplomazia Avigdor Lieberman; e ne ha parlato lo stesso Mitchell con il presidente palestinese Abu Mazen. L'obiettivo è lanciare un progetto vincolante, magari impreziosito dal vertice Obama-Netanyahu-Abu Mazen, che calamiti i punti di convergenza, annacquando i rispettivi veti. Con l'obiettivo di offrire un' onorevole via d'uscita da una situazione potenzialmente pericolosissima.
Impresa ardua, ma che oggi non appare impossibile, perché le parti sono consapevoli che lo status quo non è più sopportabile. I rischi di rapido deterioramento sono evidenti. Mentre la Striscia di Gaza continua ad essere un focolaio di tensioni, il dialogo fra i laici del Fatah e i fondamentalisti di Hamas non decolla e Israele è in bilico tra la necessità del realismo e le pressioni dei falchi, una preoccupante notizia è stata anticipata dall' agenzia cinese Xinhua, che dimostra come Pechino sia attentissima a tutto ciò che accade nel Medio Oriente. Siria e Iraq, in passato nemiche giurate e da qualche tempo protagoniste di un interessante disgelo, hanno deciso di richiamare i rispettivi ambasciatori.
L'accusa di Bagdad è assai grave: dice che a Damasco, dove si sono rifugiati dopo la caduta del regime di Saddam, alcuni irriducibili nostalgici del dittatore impiccato hanno invitato i loro complici in Iraq a compiere spettacolari attentati terroristici, già costati, nelle ultime settimane, centinaia di morti. L'ordine di rientro dell'ambasciatore in Siria è stato seguito dalla dura risposta di Damasco, offesa per l'accusa, ritenuta una perfida e infamante manovra dettata da «ragioni interne ». Immediato il richiamo, per ritorsione, del proprio ambasciatore.
Al di là delle frequenti controversie tra i due paesi, stupisce che tutto questo avvenga mentre il presidente Bashar el Assad è impegnato a dimostrare che intende collaborare attivamente con chi vuole pacificare l'Iraq. La turbativa affiora nel momento in cui il paese che Damasco considera prioritario per i propri interessi, cioè la repubblica libanese, sta vivendo una fase di riconciliazione nazionale, dopo la vittoria alle elezioni del fronte antisiriano di Saad Hariri, figlio dell'ex premier assassinato nel 2005. L'altro giorno, nell'ufficio del capo dello stato Michel Suleyman, si sono incontrati appunto Hariri e il suo avversario, il generale cristiano Michel Aoun, alleato dell'Hezbollah e oggi vicino alla Siria. Entrambi sorridenti, davano l'impressione di essere pronti a collaborare.
Segnali contraddittori quindi, che dimostrano due cose: che il mondo arabo, pur barricato in difesa della proposta di pace che prevede il riconoscimento di Israele in cambio del ritiro da tutti i territori occupati, è ancora diviso sulla possibilità di trovare un accordo; e che gli ostacoli che il piano complessivo di Barack Obama dovrà affrontare sono davvero proibitivi.
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