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Il Foglio Rassegna Stampa
03.09.2009 I liberal iniziano a pensarla come Cheney sul terrorismo
'Le tecniche di interrogatorio utilizzate potrebbero aver funzionato e aver davvero reso più sicura l’America'

Testata: Il Foglio
Data: 03 settembre 2009
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Toh, i liberal iniziano a pensarla come Cheney sul terrorismo»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/09/2009, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Toh, i liberal iniziano a pensarla come Cheney sul terrorismo ".

 Dick Cheney

New York. La grande stampa liberal degli Stati Uniti, unita come un sol uomo nel contestare l’architettura giuridica della guerra al terrorismo di George W. Bush, nove mesi dopo l’uscita di scena del presidente texano e davanti all’incrollabile e instancabile certezza dell’ex vicepresidente Dick Cheney, sta cominciando a riconoscere che le “tecniche avanzate di interrogatorio” adottate dal predecessore di Barack Obama e considerate alla stessa stregua della tortura potrebbero aver funzionato e aver davvero reso più sicura l’America. Ha cominciato il Washington Post, sabato mattina, con una lunga inchiesta affidata alla firma dei tre autorevoli giornalisti del team di esperti di sicurezza nazionale del giornalone della capitale. L’articolo, contestatissimo dai blog di sinistra, racconta nel dettaglio una cosa che Cheney va dicendo da mesi e che i rapporti del dipartimento della Giustizia e della Cia recentemente resi pubblici dall’Amministrazione Obama avevano anticipato: i detenuti talebani e di al Qaida hanno cominciato a collaborare soltanto dopo l’applicazione delle controverse tecniche di interrogatorio elaborate dai servizi segreti e autorizzate dai legali di Bush. Malgrado siano state complessivamente e comunemente definite “torture”, soltanto due dei tredici rigidi metodi di interrogatorio cancellati da Obama al primo giorno di presidenza confinano davvero con un trattamento abusivo della dignità dei prigionieri: la privazione prolungata del sonno e l’annegamento simulato (waterboarding), anche se effettuati sempre sotto il controllo medico. I legali dell’Amministrazione Bush hanno fissato i limiti oltre i quali le tecniche richieste dalla Cia sarebbero divenute illegali e sono proprio i dieci casi in cui questi limiti sono stati superati che ora sono al centro della preliminare inchiesta federale avviata nei giorni scorsi dal segretario alla Giustizia di Obama. Va ricordato, inoltre, che queste tredici tecniche non sono state autorizzate su tutti i detenuti della guerra al terrorismo, ma su novantotto prigionieri di alto profilo rinchiusi nel carcere di Bagram, quello che Obama non pensa di chiudere, e nelle prigioni segrete della Cia, non a Guantanamo. In realtà sono stati 28 i detenuti di al Qaida effettivamente sottoposti a queste procedure, mentre in tre hanno subito il waterboarding e mai dopo il 2003. Il caso delle “torture”, una volta scremato della propaganda politica anti Bush, è più circoscritto rispetto a quanto è stato scritto e commentato. E ora grazie anche ai grandi giornali comincia a venire meno una delle critiche principali, quella cioè che la “tortura” non sia solo moralmente sbagliata, ma che non funzioni. Il Washington Post ha ricostruito con fonti ufficiali e documenti alla mano la trasformazione di Khaled Sheik Mohammed, l’ideatore dell’11 settembre, da detenuto che non rispondeva alle domande, si prendeva gioco degli agenti e chiedeva un avvocato, a principale asset della Cia per smantellare il network terroristico di al Qaida e sventare altri piani d’attacco in America, a cominciare da uno a Los Angeles. Il motivo di questo cambiamento di atteggiamento è uno solo: il waterboarding. Prima che fosse sottoposto al più estremo dei metodi di interrogatorio, il capo di al Qaida non parlava, dopo ha fornito le informazioni decisive (assieme ad alcune false). Così anche altri prigionieri, sempre secondo la ricostruzione del Post. I documenti resi pubblici dall’Amministrazione Obama e confermati dall’inchiesta del Washington Post hanno cambiato la dinamica del dibattito sui metodi investigativi utilizzati in passato dalla Cia. Ora si sa che queste tecniche sono state efficaci e che hanno contribuito a combattere al Qaida. Si può obiettare che l’aver ottenuto informazioni in questo modo non esclude che, alla lunga, queste notizie sarebbero arrivate anche seguendo procedure più docili. Una discussione legittima, specie oggi che l’America è riuscita a evitare un’altra strage sul suo territorio, ma altamente improbabile nelle concitate settimane successive all’11 settembre, quando ci si aspettava da un momento all’altro un altro attacco e la pressione dell’opinione pubblica sulla politica, sulla Cia e sull’apparato di sicurezza nazionale era quella di riparare alla precedente e grossolana sottovalutazione del pericolo islamista. Sempre sul Washington Post, martedì mattina, è stato l’opinionista super liberal Richard Cohen a ribadire che il dibattito americano sulle “torture di Bush”, anche a sinistra, potrebbe aver preso una piega revisionista. Cohen, già a maggio, aveva cominciato a scrivere cose normalmente irriferibili sul conto della politica antiterrorismo di Bush. In un articolo dal titolo, “E se Dick Cheney avesse ragione?”, pur senza scagionare l’ex vicepresidente, aveva scritto che “la sinistra politica sembra pensare che la Cia abbia torturato i sospetti terroristi solo per il piacere di farlo” e si era chiesto se per caso “ciò che dice Cheney sia la verità, cioè che la tortura funzioni”. Cohen aveva concluso quell’editoriale dicendo che “l’Amministrazione Obama deve svelare il bluff di Cheney, se di questo si tratta. Se anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno, questa potrebbe essere la volta di Cheney”. Martedì, Cohen è tornato sul punto immaginandosi un ipotetico terrorista islamico di nome Ishmael appena catturato dalla Cia: “Ora è in custodia americana. Che cosa succederà. Come facciamo a fargli svelare i piani del suo gruppo e i nomi dei colleghi? Sarà dura. In realtà sarà più dura di prima. Non potrà più essere sottoposto all’annegamento simulato. E lui lo sa. Non potrà essere privato più di un certo periodo di sonno. Non potrà più essere colpito né lanciato contro un muro pieghevole. Non si potrà minacciare lui o la sua famiglia né spaventare con la prospettiva di usare un trapano elettrico. Lui conosce le nuove restrizioni. Sa dei nuovi limiti. Può anche dire ai suoi interrogatori che il loro posto di lavoro è a rischio e che il dipartimento della Giustizia li sta controllando. Il nastro scorre. Tutto è registrato. Lui è pronto a sacrificare la vita. Quelli che lo interrogano, però, saranno pronti a sacrificare la carriera? E lui ride”. Cohen ribadisce che la tortura è una brutta cosa e che stabilire in che cosa consista è difficile, tanto più se si pone l’ulteriore questione della sua efficacia, “ma nessuno può davvero credere che oggi l’America sia più sicura grazie alle nuove restrizioni sulle tecniche avanzate di interrogatorio e alla nomina di un procuratore speciale che indaga sugli abusi commessi nel passato”. Cohen dice di essere diviso tra il desiderio di sicurezza e l’orrore per la tortura, ma sa che in questo caso “l’ideologia non fornisce una risposta”, perché è vero che “la tortura è sempre schifosa, ma lo è anche quel buco sul terreno dove un tempo c’erano le Torri gemelle”.

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