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Avvenire Rassegna Stampa
01.09.2009 Il quotidiano cattolico descrive la situazione a Gaza e incolpa Israele
Ma i veri responsabili sono i terroristi di Hamas

Testata: Avvenire
Data: 01 settembre 2009
Pagina: 9
Autore: Fabio Proverbio
Titolo: «Gaza, rialzarsi fra le macerie»

Riportiamo da AVVENIRE del 30/08/2009, l'articolo di Fabio Proverbio dal titolo " Gaza, rialzarsi fra le macerie ".

L'articolo descrive la situazione a Gaza, la miseria della popolazione, la tristezza dei bambini, le difficoltà dei contadini a coltivare la terra. I responsabili, secondo Fabio Proverbio, sono Israele e l'operazione Piombo Fuso. 
Proverbio, evidentemente, ignora che Piombo Fuso è stata una guerra difensiva, in risposta ai continui lanci di razzi kassam da parte di Hamas sulla popolazione israeliana. Perciò i veri responsabili della situazione di Gaza sono i terroristi di Hamas.
IC, per completezza di informazione sul quotidiano AVVENIRE (organo ufficiale della conferenza episcopale italiana), ne segnala l'impostazione fortemente sbilanciata contro Israele. Da quanto leggiamo sui giornali sembra che sia in arrivo una nuova direzione. Il nostro augurio, chiunque sarà il direttore, è l'abbandono della linea disinformativa su Israele e il mondo arabo che rende il quotidiano cattolico molto simile al Manifesto.
Ecco l'articolo:

 Hamas

Entrare nella Striscia di Gaza è missione difficile. Le porte d’accesso sono Rafah, in Egitto, e Erez, in Israele. La prima è un «cancello» nel deserto, distante 20 chilometri circa dal primo centro abitato egiziano. Già dai primi contatti con i militari alla frontiera capisco che questo cancello non si aprirà mai per farmi entrare. Subisco la stessa sorte degli oltre 150.000 container di aiuti umanitari bloccati a questa frontiera da un incomprensibile embargo. Ritorno al Cairo e da qui parto per Israele, per tentare di entrare da Erez.
Prima di lasciare Rafah incontro Stefano, un volontario italiano che da oltre quattro settimane sta cercando di portare nella Striscia di Gaza viveri e medicinali. Frustrato dalla lunga attesa, mi spiega come intorno a quella moltitudine di aiuti umanitari sia sorta un’economia fiorente. I saccheggi notturni stanno alimentando i mercati locali; i servizi di trasporto, carico, scarico, sdoganamento – quasi sempre inutili – assicurano impiego di manodopera e opportunità di ingenti profitti. Arrivato a Gerusalemme perdo altri tre giorni per ottenere i permessi necessari a superare i controlli dell’esercito israeliano alla frontiera di Erez. Finalmente a Gaza, il mio primo incontro è con don Manuel Musallam, parroco della piccola comunità locale di cristiani cattolici. D’origine palestinese, don Musallam tiene subito a sottolineare come i cristiani di Gaza siano integrati nella società palestinese.
Chiarisce in modo perentorio che non intende discutere di comunità cristiane e comunità musulmane come fossero due realtà distinte e contrapposte. Intende invece parlare di un unico popolo palestinese, impegnato a superare le grandi difficoltà conseguenti al recente conflitto, al successivo embargo dei principali mezzi di sussistenza e di ricostruzione, nonché allo stato di reclusione che impedisce da decenni al popolo della striscia di varcarne i confini. Musallam è divenuto nel tempo una voce importante per la difesa dei diritti dei palestinesi di Gaza. Rispettato dalla gente e dai capi politici della Striscia, ha sempre saputo proteggere la propria comunità dal pericolo di attacchi di estremisti religiosi.
La comunità cristiana di Gaza si compone di circa 3000 fedeli, prevalentemente di credo ortodosso.  Le famiglie cristiane sono generalmente miste; nate dall’unione di cattolici ed ortodossi, partecipano attivamente alla vita di entrambe le comunità. Percorrendo il territorio della Striscia si è letteralmente «aggrediti» dalle immagini di distruzione lasciate dall’operazione «Piombo Fuso» dello scorso dicembre; la risposta militare di Israele alle continue provocazioni del Movimento di Resistenza Islamico Hamas che, dalle elezioni amministrative del 2006, ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. Ancora oggi molti dei feriti nel conflitto rischiano la morte per carenze di farmaci e di cure appropriate. Nella periferia di Gaza incontro una famiglia riparata all’interno di una tenda che sostituisce la casa distrutta dai bombardamenti. Sdraiato a terra un uomo malato che attende inutilmente un aiuto per recarsi ad un centro di trasfusione. La moglie rassegnata piange con un bambino al seno. S ono proprio questi bambini le vittime più indifese di una guerra che ha tenuto un popolo sotto la continua minaccia delle bombe per intere settimane.
Nelle tendopoli costruite nei sobborghi della capitale per gli sfollati dei quartieri distrutti, gruppi di bambini cercano la serenità nel gioco; pochi la trovano; i più rimangono perdutamente tristi. Le campagne esterne ai centri abitati conservano, come ferite che tardano a rimarginarsi, le profonde tracce dei cingolati israeliani. Gli agricoltori sono già impegnati nelle attività di ripiantumazione degli ulivi distrutti. Sono i primi segni della voglia degli abitanti della Striscia di guardare al futuro; la risposta spontanea di una comunità contadina, tradizionalmente preparata a fronteggiare e superare avversità di altra natura. Ma i problemi degli agricoltori di Gaza non si sono conclusi con la fine dei bombardamenti. Al fine di contrastare il lancio dei missili Kassam su Israele, l’esercito israeliano non consente nessuna attività né presenza umana per un chilometro di distanza dalla linea di confine.
Considerando che la Striscia di Gaza è larga da 4 a 6 chilometri, questa misura di sicurezza causa una perdita consistente di terreni coltivabili. Per ragioni di sopravvivenza i contadini palestinesi continuano a lavorare nelle zone proibite, esponendosi al fuoco dei cecchini israeliani. Talvolta gli agricoltori sono accompagnati da volontari della Ong International Solidarity Movement che, interponendosi tra le parti come «scudi umani», tentano di scoraggiare la reazione armata dei militari. Purtroppo non sempre ci riescono, e di volontari feriti se ne registrano numerosi tutti gli anni.
 Anche per i pescatori di Gaza le condizioni di lavoro sono molto pesanti. Per scongiurare un eventuale traffico d’armi, i pescatori sono costretti a navigare entro le tre miglia marine, nelle acque inquinate e povere del litorale. L’alto costo del carburante, la mancanza di pezzi di ricambio per le imbarcazioni e la povertà ittica delle acque costiere rende oggi questa attività non più remunerativa. Chi si ostina ad uscire in mare lo fa soltanto per mantenere la dignità di un lavoro. Raccolgo queste informazioni da Khader, un pescatore che in mare ha perso un braccio, tranciato da una raffica esplosa da una motovedetta israeliana.
Percorrendo le strade di Gaza, giungo casualmente in prossimità dello stadio. Un campionato di calcio sarebbe un soggetto interessante per rappresentare la voglia di normalità di una società in ripresa. Purtroppo mi informano che il campionato è ancora sospeso e che gli unici ad L allenarsi sono i membri della squadra paralimpica d’atletica. Incontro così Omer, un ragazzo non vedente di 22 anni che sogna di poter partecipare ai giochi paralimpici nella specialità del salto in lungo. È l’unico sopravvissuto di un gruppo di 6 ragazzi che, un pomeriggio di cinque anni fa, mentre giocava a carte all’ombra di un ulivo, è stato intercettato e colpito da un caccia israeliano. Per Omer e gli altri atleti, partecipare a competizioni internazionali significa anche poter varcare i confini di Gaza, il sogno condiviso da tutti i ragazzi della Striscia. a popolazione di Gaza è tra le più giovani del mondo.
La moltitudine di studenti che s’incontrano per le strade della capitale conferma un tasso di alfabetizzazione molto alto, comparabile a quello dei Paesi più industrializzati. Il numero degli universitari è altrettanto elevato, nonostante sia poi difficile per i laureati spendere le proprie competenze professionali in un sistema economico basato essenzialmente sul sussidio e l’aiuto umanitario e caratterizzato da livelli altissimi di disoccupazione. Questi studenti, come la maggior parte degli abitanti di Gaza, sostengono apparentemente Hamas perché rappresenta la «resistenza» palestinese alla «forza occupante». Ma quando si affrontano temi più specifici e ci si addentra in valutazioni più personali, sono in molti a prendere le distanze da questa organizzazione i cui principi e metodi non trovano più il generale consenso. L’impressione è che oggi il popolo palestinese sia pronto al dialogo con Israele e disposto anche ad accettare difficili compromessi pur di guadagnare condizioni di vita dignitose.
All’Università delle Belle Arti alcuni studenti m’invitano a visitare un’istallazione prodotta da tre giovani artisti in un palazzo bombardato, adiacente ad uno dei principali ospedali della capitale. Mi illudo di trovare espressioni artistiche che vadano oltre la tematica del conflitto, rivolte alla rinascita. Ma il «lutto» non è stato ancora completamente elaborato e le attuali produzioni non possono prendere le distanze da una guerra le cui conseguenze sono ancora troppo evidenti. Rientrando una sera per le strade buie della periferia di Gaza, incontro un ragazzo che vende tortorelle. Il suo sguardo smarrito, la gabbia tenuta stretta al petto, gli uccelli impazziti contro le maglie arrugginite, sono per me l’immagine emblema del popolo palestinese, prigioniero in un territorio devastato, spaventato da un presente minaccioso, rassegnato ad un futuro incerto.

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