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Il Manifesto Rassegna Stampa
01.09.2009 Un articolo sulla 'Banca Centrale di Tel Aviv'
Peccato che questa non esista. Il quotidiano comunista intendeva quella di Gerusalemme?

Testata: Il Manifesto
Data: 01 settembre 2009
Pagina: 9
Autore: Massimo Bongiorno
Titolo: «Israele stupisce tutti e per prima rialza i tassi»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 01/09/2009, a pag. 9, l'articolo di Massimo Bongiorno dal titolo " Israele stupisce tutti e per prima rialza i tassi ".

In tutto l'articolo Bongiorno parla della Banca Centrale di Tel Aviv. La Banca Centrale e il governo di Tel Aviv non esistono. Semmai esistono quelli di Gerusalemme.
E' difficile prendere sul serio un articolo contenente simili errori e il quotidiano che l'ha pubblicato. Ecco l'articolo:

 Gerusalemme.

La notizia c’è tutta, eppure – fatta salva la stampa economica – è passata quasi inosservata. Lunedì 24 agosto, appena rientrato dal mega- summit dei banchieri centrali di Jackson Hole, il numero uno della Bank of Israel Stanley Fisher spariglia le carte e porta il costo del denaro da 0,50 a 0,75%. Stupendo mezzo mondo di «addetti ai lavori», Fisher fa così passare alla storia Israele come il primo paese a invertire la rotta e innalzare i tassi dall’inizio della crisi finanziaria globale. La faccenda è interessante perché Israele è tutt’altro che un piccolo paese qualunque e Stanley Fisher non è solo il governatore della sua banca centrale. Ha un profilo accademico di tutto rispetto, tra London School of Economics e Mit (dove è stato tra l’altro relatore di tesi del «giovane» Ben Bernanke). E’ considerato «il» maestro da gente come Mario Draghi e Lucas Papademos (il numero due della Bce). Quando va a Jackson Hole ha sempre i fari puntati: o fa il discorso di apertura o quello di chiusura.O, come quest’anno, quello centrale. E’ stato ai vertici della Banca Mondiale, del Fondo Monetario e di Citigroup. Fino al 2005, quando lo hanno chiamato alla Banca centrale di Tel Aviv. Insomma: è un uomoche ha grande confidenza con quasi tutte le stanze dei bottoni. E in molti la scorsa settimana hanno cominciato a chiedersi cosa c’è dietro e quali banche centrali nei prossimi mesi potrebbero emularlo. La piccola «stretta» viene motivata da Tel Aviv con due ragioni. In primo luogo la tenuta del Pil, che nel secondo trimestre 2009 tornava positivo a +1% (dopo due trimestri consecutivi in rosso: -1,4 e –3,2%). Parallelamente, la ripresa dell’inflazione che, depurata del forte calo dei costi energetici e alimentari, è al 5,5%. In piccolo è esattamente quello che potrebbe succedere da noi: al primo vago accenno di ripresa, l’enorme quantità di moneta messa in circolazione per rifinanziare i mercati spinge violentemente in alto l’inflazione. E fa paura. Ma Israele è un paese speciale, con degli originali elementi di «stabilità». La «grande crisi» non si è certo sentita come da noi. E non solo perché le sue esportazioni ad «alto contenuto tecnologico » tengono, in quanto legate a fasce di consumo medio-alte. Le ragioni sono semmai legate a questioni di geopolitica al fatto che quella israeliana è per moltissimi aspetti un’economia di guerra. Le enormi spese militari hanno portato il debito pubblico a superare stabilmente l’80% del Pil. Nello stesso tempo, non si èmai interrotto – neppure in piena crisi - il fiume di finanziamenti proveniente dagli Stati Uniti. Che è difficile quantificare, perché è declinato in una infinità di modi. Solo un esempio: dati del Congresso Usa documentano che Tel Aviv è destinataria di un terzo dell’intero bilancio statunitense per i paesi in via di sviluppo. Una boccata d’ossigeno, in dollari, che arriva puntualmente ogni anno (ed è oggettivamente difficile definire Israele un «paese in via di sviluppo»). Così, a dicembre 2008, mentre i titoli dei nostri giornali erano tutti per la crisi, in Israele l’attenzione andava alla costituzione del nuovo governo o alle relazioni con Obama. E nella conferenza stampa di lancio del suo piano economico per il 2009, il premier Benjamin Nethanyau lanciava due messaggi. Uno, prevedibile, che annunciava tagli alla spesa pubblica e garanzie governative fino al 75% ai prestiti bancari. L’altro che vedeva nella crisi globale una opportunità, perché potrebbe provocare nuove ondate di immigrazione ebraica «migliorando» il saldo demografico con la componente araba del paese. Preoccupazioni decisamente diverse da quelle che continuano ad agitare i governi occidentali. L’ultima vera crisi economica Israele l’ha vissuta qualche anno fa, tra il 2000 e il 2003. Ne uscì con tagli draconiani alla spesa sociale, i cui effetti si sentono ancora oggi (soprattutto sulle fasce di popolazione che tende a non votare, arabi-israeliani ed ebrei ultraortodossi). La Guerra all’Irak, con tutto quello che ne è seguito in termini di appalti e apertura di nuovi mercati, è stata una boccata d’ossigeno. Ma c’è dell’altro. Legato all’ingresso di Cipro nella Ue nel 2004. Da quelmomento in poi, l’enorme massa di denaro che la criminalità organizzata – prevalentemente mafie russe – «puliva» nell’isola, ha dovuto cambiare strada. E pare che buona parte abbia preso prima la via di Beirut, poi quella di Tel Aviv.Nel 2005 un clamoroso caso di riciclaggio toccò una delle principali banche del paese, l’Hapolaim. E all’inizio di agosto di quest’anno, la polizia israeliana ha chiesto l’incriminazione delministro degli esteri Avigdor Lieberman per riciclaggio, frode e corruzione. Molto lavoro per Fisher, pare.

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