Tre generazioni a confronto.
Saggi sulla letteratura israeliana
a cura di Yigal Schwartz e Gabriella Steindler Moscati
Editoriale Scientifica, Napoli Euro 20
Maschile, anzi maschilista, in sospetto di sciovinismo, aggressivo e invadente. Una presenza scomoda cui è impossibile sottrarsi. Ma per fortuna c’è. Con un antagonismo simile, scrittori e intellettuali non hanno certo avuto il tempo di annoiarsi. Fin da subito, romanzieri e poeti si sono buttati a capofitto nella lotta col mito, col sogno di un rovesciamento di duemila anni di diaspora, e con le lusinghe dell’ultimo nazionalismo che l’Europa ha esportato sull’altra riva del mediterraneo. Lo Stato d’Israele esiste da poco più di sessant’anni. Ed è proprio dalla sua tormentata esperienza che ha tratto linfa una letteratura straordinariamente creativa. Paragonata con le tradizioni plurisecolari delle letterature europee, quella israeliana è assurdamente breve, eppure, negli ultimi decenni, il vecchio continente ha letto con avidità quasi ogni pagina che venisse da Gerusalemme, Tel Aviv o Haifa o persino da qualche sperduto kibbutz del Negev. Anche in Italia, dove il successo di alcuni scrittori israeliani è cominciato alla fine degli anni Ottanta, è ormai tempo di trarre bilanci e di interrogarsi sulle ragioni e le prospettive di questa popolarità. Il volume a più mani, curato da Yigal Schwartz e Gabriella Steindler Moscati, mette in controluce le poetiche di tre generazioni, dalle prime prove di Yehoshua e Oz fino alla narrativa degli autori ora quarantenni. Benché si tratti in teoria di critica letteraria, il libro è tanto prodigo di citazioni che può essere usato anche come piccola antologia. Ma che cosa accomuna quelli che sono ormai i grandi vecchi agli scrittori postmoderni? Soprattutto Lui, il Sionismo. Condiviso o ripudiato, ma pur sempre così pieno di contraddizioni da funzionare come una vera macchina del tempo. Negli anni Cinquanta, quando Yehoshua e Oz iniziavano la loro carriera espressiva, lo Stato sionista era l’amico-nemico, un’utopia collettiva, miracolosamente diventata realtà, contro cui l’individuo doveva però ribellarsi, per difendere un proprio spazio vitale. E si sa che gli scrittori sono maestri di insubordinazione, almeno sulla carta. Non è forse un’educata presa di distanza l’epopea del Signor Mani di Yehoshua? La tribù, quella dei Mani appunto, non è forse più antica e più forte di qualsiasi Stato? Almeno nei romanzi, la diaspora prende una rivincita nei confronti della palingenesi sionista. Sia detto per inciso, questo “tribale” deve essere uno dei maggiori motivi di affascinazione per il lettore nostrano. Non c’è dubbio, le saghe che si mettono di traverso rispetto alla storia, e disegnano arabeschi di famiglie così mediterranee così anarchicamente umorali, intrigano. E’ possibile che risveglino l’appena sopito tribalismo italico? Per usare la riuscita immagine di Schwartz, gli scrittori israeliani si muovono come commandos, attaccano la compattezza della loro nazione – di cui per altro non saprebbero fare a meno un solo istante – per poi ritirarsi subito. Lo fanno in chiave intimista, come David Grossman che invoca una sua sghemba poetica del fanciullino, minacciosamente metafisica, oppure triturano normalità, consumismo e buoni sentimenti, come per esempio la lucidamente sciatta Orly Castel-Bloom. E in fondo al volume – per ora tra i giovani maestri in attesa di essere scalzati da qualche nuovo venuto – Etgar Keret, con le sue trovate fumettistico-crespuscolari. Così è nata la pianta esotica e transgenetica del post- , o meglio transionismo. Non vale più la pena di ribellarsi. E poi contro chi? “Un opuscolo a colori – promette Keret, sornione – ti indicherà la strada per l’immortalità…tuo a soli 39,99 shekel”. “Hai visto? Non appena hanno un po’ di successo, cominciano a spararti prezzi incredibili”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore