A proposito di narrative palestinesi. Avete tutti sentito parlare della "nakbah", il disastro, quando i cattivi sionisti cacciarono con la forza i poveri palestinesi dalle loro case e "rubarono" loro il paese. Be', prendete il caso di Mahmud Abbas ("nome di battaglia" Abu Mazen), insomma il presidente dell'Autorità Palestinese. La televisione di Ramallah, Al Palestinia ha raccolto le tracce della sue esperienza durante la Nabkah. "Until the nakbah," he recounted, his family "was well-off in Safed." When Abbas was 13, "we left on foot at night to the Jordan River... Eventually we settled in Damascus... [...] People were motivated to run away... They feared retribution from Zionist terrorist organizations - particularly from the Safed ones. Those of us from Safed especially feared that the Jews harbored old desires to avenge what happened during the 1929 uprising. This was in the memory of our families and parents... They realized the balance of forces was shifting and therefore the whole town was abandoned on the basis of this rationale - saving our lives and our belongings." ["Fino alla Nakbah", ha raccontato, "la sua famiglia era benestante a Safed". Quando Abbas aveva 13 anni "lasciammo la città a piedi di notte dirigendoci al Giordano... alla fine andammo a vivere a Damasco... La gente era motivata a scappare... Avevano paura delle rappresaglie delle organizzazioni terroristiche sioniste - in particolare quelle di Safed. Chi di noi veniva da Safed aveva particolare paura che gli ebrei ospitassero vecchi desideri di vendetta per quel che era acceduto durante i disordini del 1929. I nostri genitori e le nostre famiglie se ne ricordavano... realizzarono che l'equilibrio delle forze stava cambiando e perciò l'intera città fu abbandonata per queta ragione: salvare le nostre vite e i nostri averi."] Fin qui Abu Mazen, che poi si sarebbe ricordato una decina d'anni dopo di quelle memorie dei genitori per scrivere una bella tesi di laurea negazionista della Shoà all'università Lumumba di Mosca e sarebbe quindi tornato in Medio Oriente negli anni Sessanta per essere fra i primi terroristi di Al Fatah a sparare contro gli israeliani, come si è vantato di recente. Questi sono quelli con cui bisognerebbe fare la pace... Ma torniamo a questa interessante intervista, per notare due cose. La prima è ovvia. In questo racconto, pardon narrativa, Abu Mazen si è dimenticato un elemento essenziale: la violenza ebraica. Dove sono le armi, i rastrellamenti casa per casa, la costrizione fisica che avrebbe fatto emigrare la sua famiglia, legittimando ora il suo ritorno? Niente di tutto questo. Magari da qualche parte sarà successo, la guerra è la guerra, ma a Safed no. Gli arabi "avevano paura" che gli ebrei "albergassero" una rappresaglia e se ne sono andati per conto loro, pensando di "salvare vite e beni". Triste, come tutti gli esodi, ma non criminale né violento. La fuga è dovuta alla loro paura, non a pressioni effettivamente subite; e la paura era certamente eccessiva, se si pensa alle centinaia di migliaia di arabi che sono rimasti in Israele dopo la sua costituzione e non sono stati affatto molestati, ma anzi sono cresciuti di numero e di condizione economiche. Almeno nel caso del loro presidente Abbas e di quel che lui ha visto, la Nabkah dei palestinesi è stato un disastro autoinflitto, ben altra cosa rispetto alla Shoà cui qualcuno oggi osa paragonarla. Il secondo punto sono quegli "eventi del '29". Pochi oggi lo ricordano nelle loro "narrative", ma probabilmente è quello il punto di partenza della guerra fra (futuri) israeliani e (futuri) palestinesi. Quando ancora non c'era uno Stato, non c'era stata la Nabkah, non c'era "occupazione" né "colonie", ma solo vecchie comunità religiose inermi e insediamenti agricoli su terreni regolarmente comprati (anche in quelli che oggi sono il West Bank), quando una parte consistente del gruppo dirigente ebraico dell'Yishuv (l'"insediamento", come si chiamava allora) cercava il dialogo e l'alleanza con gli arabi locali, ci fu una terribile ondata di violenze contro gli ebrei in Palestina, un pogrom più sanguinoso di quelli russi o della stessa Notte dei Cristalli tedesca, cui mancava ancora una decina d'anni. Esattamente ottant'anni fa, nell'agosto del '29, il capo religioso (muftì) di Gerusalemme che poi sarebbe andato a lavorare per Hitler, Haj Amin al-Husseini, proclamò il "jihad" (guerra santa) contro gli ebrei. Nell'antichissima comunità ebraica di Hebron, esistente senza interruzione dai tempi biblici, perché custodisce il luogo che la tradizione attribuisce alla "tomba di Abramo" furono ammazzati sessantasette ebrei e gli altri furono deportati "per la loro sicurezza" dagli inglesi (adesso capite perché la pretesa di alcuni "estremisti" ebrei di tornare a vivere a Hebron non è senza giustificazioni. A Safed (in ebraico Tzfat), comunità altrettanto antica e nota per aver ospitato nel Cinquecento i grandi maestri della cabala come Luria, gli arabi ammazzarono in maniera terribile 21 ebrei (per fare un solo esempio di questo orrore, un gatto fu infilato nel ventre aperto di una donna incinta. Gli ebrei di Tzfat respinsero l'offerta inglese di "trasferimento in un luogo sicuro" e si organizzarono per difendersi (le "bande terrorsiste" di Abbas). Ciò nonostante, durante un'altra "guerra santa", proclamata da Husseini, il 13 agosto del 36, vi furono altri morti ebrei, fra cui una intera famiglia, gli Unger, il padre scriba della Torah di 36 anni, le sue figlie Yafa and Hava (rispettivamente 9 e 7 anni) e il suo figlio Avraham di 6. Questi sono gli "uprising" di cui la famiglia Abbas teneve memoria; casi analoghi accaddero in tutto il paese. Una strage organizzata di ebrei, praticamente senza reazioni né difese (nessuno nel campo sionista immaginava che una cosa del genere fosse possibile, neanche Jabotinski, che da questa esperienza trasse la sua convinzione della necessità di "un muro di ferro" per difendere gli ebrei in Terrasanta). Senza dubbio i parenti di Abbas avevano ragione di sentirsi inquieti, nel momento in cui "la bilancia del potere" si spostava; o magari avevano una qualche forma primitiva di rimorso, la paura di una punizione per i crimini orribili che avevano commesso. La conclusione è semplice. Non bisogna accettare le "narrative" o le versioni di comodo per come si raccontano. Se si vuol capire il Medio Oriente bisogna entrare nei dettagli, scavare prima dell'inizio ufficiale della "narrativa" (il '48), cercare di individuare le dinamiche reali. Fare storia e non propaganda ideologica. Ma questo è un lavoro troppo difficile e paziente per quelli che vogliono semplicemente attribuire torti (a Israele) e ragioni (agli arabi), si tratti di Eurabia, degli arabi, o di "progressisti" di buona volontà, magari ebrei che proiettano il loro senso di colpa occidentale su Israele.