Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/08/2009, a pag. 12, l'articolo di Alberto Quadrio Curzio dal titolo " L’Occidente aiuti il popolo iraniano. Nessun invito ai leader illegittimi " e, a pag. 14, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "Armi per l’Iran. Coinvolta ditta italiana ". Ecco gli articoli:
Alberto Quadrio Curzio : "L’Occidente aiuti il popolo iraniano. Nessun invito ai leader illegittimi "
Alberto Quadrio Curzio
Il presidente Obama ha detto di volere che «la Repubblica Islamica dell’Iran » torni a essere la benvenuta nella «comunità delle Nazioni». Peccato che è proprio il carattere confessionale della repubblica a escluderla da questa possibilità. Una chiara dimostrazione in proposito ci è stata fornita qualche giorno fa, quando il dittatore di quel Paese, Mahmoud Ahmadinejad, con le mani ancora imbrattate dal sangue del suo recente colpo di Stato militare, ha scelto il ministro della Difesa. Si tratta di Ahmad Vahidi, che, se confermato nella carica, sarà l’unico ministro della Difesa al mondo a essere ricercato dall’Interpol.
Vahidi era il capo delle cosiddette «Forze Quds», braccio sotterraneo delle «Guardie Rivoluzionarie» che opera all’estero in incognito. Nel 1994, secondo un’accusa dell’Argentina — che l’Interpol ha fatto propria, iscrivendolo nella sua «lista rossa», l’indice delle persone più ricercate — Vahidi è stato uno dei responsabili della «ideazione, organizzazione, finanziamento ed esecuzione» della distruzione del centro culturale della comunità ebraica di Buenos Aires. Le vittime furono 85, e centinaia i feriti. Tra gli altri cinque responsabili di questa atrocità c’erano Mohsen Rezaee, ex capo delle Guardie Rivoluzionarie, in seguito tra i candidati alla presidenza, e il defunto Imad Mugniyeh, che guidava da Damasco l’ala militare di Hezbollah, anch’essa una dichiarata propaggine della Repubblica Islamica.
Il numero dei casi da tenere presenti è davvero impressionante. Nel 1997 un tribunale tedesco scoprì che l’uccisione di vari curdi iraniani al ristorante Mykonos di Berlino del 1992 era stata approvata e ordinata da un comitato governativo iraniano che includeva la «Guida Suprema» Ali Khamenei e l’allora presidente Rafsanjani. Non era la prima volta che un’inchiesta penale coinvolgeva i vertici dello Stato iraniano: Mark Bowden ha prodotto testimonianze convincenti, anche se non risolutive, che Mahmoud Ahmadinejad era tra i sequestratori che violarono l’immunità diplomatica dell’ambasciata americana a Teheran, e alcuni membri del parlamento austriaco hanno chiesto di indagare sul suo ruolo, in quanto capo della Guardia Rivoluzionaria, nel fornire le armi e il denaro utilizzati dalla squadra della morte iraniana che nel 1989 assassinò a Vienna il leader curdo iraniano Abdul Rahman Ghassemlou.
La Guardia Rivoluzionaria fino a qualche tempo fa non richiamava l’attenzione che ora riceve. Il colpo di stato militare di quest’anno a Teheran, di cui quell’organizzazione è stata il principale motore, l’ha portata in primo piano. Le violenze e torture su giovani iraniani, la sadica prepotenza pubblicamente manifestata, alcune uccisioni di donne, la chiusura di giornali e i processi-farsa di intellettuali e politici dell’opposizione— tutto questo è frutto dell’attività e delle ambizioni della Guardia Rivoluzionaria.
Vi sono forse dei limiti a quel che possiamo fare per aiutare e difendere gli iraniani, confinati all’interno del loro stesso Paese. È però sicuramente tempo che la comunità internazionale sia concorde nel dire che anche i leader di questa banda di criminali debbono restare all’interno dei loro confini. Potrebbero forse esserci meno inviti al «Presidente» Ahmadinejad a parlare alla Columbia University, e meno Paesi che accolgano con il tappeto rosso il suo ministro della Difesa. E a proposito dell’invio ai summit dei diritti umani a Ginevra di noti responsabili di assassini e torture: anche questo dovrebbe diventare inaccettabile. Alcune di queste persone hanno conti bancari all’estero, avendo lungamente depredato la debole e stagnante economia iraniana: bisognerebbe bloccare questi conti, o confiscarli e metterli da parte per il giorno in cui ci sarà la democrazia.
Nascoste da qualche parte in Iran ci sono persone che sono state pagate dal governo per commettere assassini politici in Libano e in Iraq, e che hanno organizzato e perpetrato omicidi e tentati omicidi contro gli editori di Salman Rushdie, quando viveva a Londra. Tutti vedono che il governo iraniano ha ormai abbandonato ogni pretesa di legittimità nel suo Paese. Non meno importante è il fatto che presenti anche verso il mondo esterno il volto di un’impresa criminale. Non c’è famiglia di Nazioni (se non nel senso gergale di «famiglia criminale ») a cui potrebbe ragionevolmente essere invitato ad associarsi. Tanto per cominciare, dovremmo impedire ai suoi leader di viaggiare, esigere l’estradizione dei loro numerosi complici ricercati e sanzionare pesantemente le loro organizzazioni che operano all’estero. La settimana in cui l’amministrazione Obama è stata così esplicita nel commentare l’umiliazione inflitta ai britannici dal colonnello libico Gheddafi è un momento eccellente per richiamare alla mente i nostri doveri in proposito, tra cui quelli verso i nostri vicini canadesi. Ma ricordiamoci che Gheddafi dopo la caduta di Baghdad decise di rinunciare ai suoi progetti nucleari. Nel caso dell’Iran, invece, non ci vorrà molto prima che i delinquenti, i ladri e gli assassini teocratici abbiano missili e arsenali. Per favore, continuiamo a ricordarcene, come ovviamente stanno facendo anche loro.
Guido Olimpio : " Armi per l’Iran. Coinvolta ditta italiana "
Guido Olimpio
WASHINGTON — Un’altra nave misteriosa, un altro intrigo che nasconde un traffico di armi. Il 14 agosto le autorità doganali degli Emirati Arabi hanno fermato il cargo «Anl Australia», arrivato dalla Cina e diretto a Bandar Abbas, in Iran. Durante un’ispezione a bordo sono state trovate spolette, munizioni, granate vendute dalla Corea del Nord all’esercito iraniano. Una fornitura proibita dalle risoluzioni Onu e per questo il carico è stato sequestrato. Sembra che gli Emirati siano stati messi in allerta, il 25 luglio, da una segnalazione dell’intelligence statunitense che, con l’assistenza della Marina, stava monitorando il mercantile. L’attività di sorveglianza è stata accresciuta dopo il varo di nuove sanzioni nei confronti della Corea del Nord, ormai famosa nell’export di armi, missili e tecnologia militare verso Paesi a rischio, come l’Iran e la Siria.
Esaminando la documentazione della «Australia» è emersa una connection italiana. La nave batte bandiera delle Bahamas, è di proprietà di una società francese ma è stata una ditta di Milano con uffici a Shanghai — la Otim spa — a organizzare la spedizione. Il suo presidente, Mario Carniglia, si è difeso così: «Ci era stato comunicato che nella decina di container c’erano macchinari per il settore petrolifero. E noi non siamo tenuti a controllare il carico».
In effetti, nelle carte esibite dal capitano al momento del fermo si «certificava» il trasporto di materiale industriale.
Un trucco abbastanza scontato per chi intende contrabbandare fucili o missili. Il coinvolgimento della «Otim» rappresenta una conferma della passione che il regime di Pyongyang ha per le nostre società. Questa estate è stata sventata la fornitura di due lussuosi yacht costruiti in un cantiere italiano e destinati al dittatore Kim Il Jong. Un’operazione d’acquisto condotta attraverso degli intermediari.
Il blocco della «Australia», a giudizio degli ambienti diplomatici, ha rappresentato una sorpresa. Gli Emirati, con il porto di Dubai, sono la sponda ideale per mille commerci con l’Iran.
Inoltre ospitano compagnie legate al regime degli ayatollah che gestiscono affari di ogni tipo. Non è dunque chiaro se la dogana è intervenuta di sua iniziativa o se, invece, come sostiene il bene informato Wall Street Journal, sia stata costretta ad agire in seguito ad un forte pressing di Washington.
Il quotidiano ha sottolineato che gli Emirati dispongono di un ottimo apparato di sicurezza, tuttavia in un caso come questo è indispensabile disporre di un supporto elettronico— per intercettare comunicazioni e spiare i movimenti a lungo raggio — che solo gli Stati Uniti (con pochi altri Paesi) hanno nel loro arsenale. Mezzi adeguati per sventare le contromosse dei contrabbandieri.
I nordcoreani e i loro clienti mediorientali, per mantenere i loro traffici «in nero», sono costretti spesso a condurre complesse manovre.
Pyongyang ha una sua flotta mercantile ma è tenuta d’occhio dagli americani.
In primavera il cargo «Kang Nam I», diretto in Birmania, è stato costretto a fare indietro tutta: navi statunitensi lo seguivano ritenendo che stesse trasportando tecnologia missilistica.
Il cargo si è tenuto sotto costa e poi, inaspettatamente, è rientrato in un porto nordcoreano. Una decina di giorni fa, la Marina indiana ha intercettato la «Mu San», un mercantile che aveva tentato di sottrarsi a un controllo. Comportamento strano quello dell’equipaggio nordcoreano visto che nella stiva c’era solo zucchero. Per gli 007 di New Delhi la «Mu San» ha però compiuto numerosi viaggi su rotte sensibili senza mai avere i documenti in regola e con soste non previste. Due buone ragioni per effettuare una perquisizione a bordo.
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