Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/08/2009, in prima pagina l'editoriale di Alberto Ronchey dal titolo " La dura realtà di una presidenza ", a pag. 6, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Un americano su due non crede più a Obama ". Ecco gli articoli:
Alberto Ronchey : " La dura realtà di una presidenza "
Alberto Ronchey
E allora, davvero Yes we can ? L’elezione alla Casa Bianca di Barack Hussein Obama fu accolta con favorevoli aspettative, ma insieme con diffuse apprensioni. La presidenza degli Stati Uniti, per la prima volta, toccava in sorte a un afroamericano tra vicende senza precedenti paragonabili nella storia della macrosocietà multietnica, da tempo anche superpotenza definita «gendarme internazionale». Obama appariva non meno abile che duttile, ma destinato a prove impervie, ora oggetto di riflessione durante la vacanza di Martha’s Vineyard. Nell’agenda presidenziale, da gennaio il primo compito è stato fronteggiare la crisi drammatica del sistema finanziario e la correlata recessione. Si discute ancora sull’entità dei fondi che il bilancio federale ha investito già, o dovrebbe investire, per il riassetto dell’economia e contro la disoccupazione di massa, considerando anche i costi della controversa riforma sanitaria. Suscitano qualche inquietudine i dichiarati malumori del gruppo Bric — Brasile, Russia, India, Cina — contro il dollaro come valuta di riserva mondiale. Fra numerose incognite, restano le mutevoli quotazioni del petrolio, mentre il tentativo di conciliare l’economia e l’ecologia sfida complicazioni gravose. Potrà Obama superare la crisi, o sarà la crisi a sopraffare Obama?
Sulla scena politica internazionale, un’estate di sangue ha preceduto nell’Afghanistan dei talebani e di Al Qaeda l’elezione presidenziale, mentre comporta non pochi rischi l’annunciato ritiro delle truppe americane dalle città irachene, benché graduale. Nell’Estremo Oriente, continua il paranoico ricatto nucleare di Pyongyang. Nel Medio Oriente, persiste il non meno paranoico nazionalismo nucleare degli ayatollah fra le turbolenze dell’Iran panislamista, mentre la guerra tra israeliani e arabi palestinesi rimane cronicizzata. La diplomazia di Obama vorrebbe almeno attenuare le vertenze con la Russia, sperando in una realistica semistabilità internazionale: impresa complessa, malgrado il patto firmato da Medvedev e Obama per la riduzione dei loro arsenali atomici nei prossimi sette anni o più. Non è ancora valutabile, intanto, la prospettiva del G2 Usa-Cina.
All’interno della macrosocietà, Obama deve salvaguardare la coesione o convivenza multietnica e multireligiosa fra 305 milioni di cittadini censiti, «bianchi» o afroamericani, ispanici, asiatici, amerindi, mentre variano le stime sulle masse d’immigrati clandestini. All’origine degli Stati Uniti, come si ricorda spesso, i governati erano appena 4 milioni, primaria comunità senza il minimo possibile paragone con la società imponente, complessa e tumultuosa nelle megalopoli dei nostri giorni.
Obama, talento pragmatico e versatile, si professa ispirato nel suo fresco americanismo dalla storica figura di Thomas Jefferson, non solo redattore della Dichiarazione d’Indipendenza, ma dotato di straordinarie versatilità persino extrapolitiche. Fra l’altro: «Sapeva calcolare un’eclisse, misurare un campo, progettare un edificio, domare un cavallo, suonare il violino, danzare il minuetto». Ma di fronte alle sfide innumerevoli del nostro tempo, sarebbe necessario manifestare ben altre versatilità, su misura delle crisi e conflittualità su scala globale. Per ora, l’ultimo sondaggio Gallup sulla popolarità del neostatista segnala un modesto 50 per cento. E poi? Tutto può ancora accadere.
Paolo Valentino : " Un americano su due non crede più a Obama "
Barack Obama
WASHINGTON — Barack Obama riesce a scherzarci, ottimista e un po' tracotante. Si è perfino inventato un neologismo, spiegando che a Washington in agosto tutti hanno il wee wee . Traduzione indisponibile, ma in soldoni il presidente voleva dire che il film lo ha già visto: nell'agosto 2007 tutti lo davano per spacciato di fronte alla corazzata Hillary, un anno fa molti vedevano la sua marcia minacciata da Sarah Palin. Sappiamo com'è andata.
Ma forse Obama farebbe bene a preoccuparsi, lui così attento e sensibile alle analogie della Storia. E a prendere sul serio l'ultimo sondaggio Gallup, che ha visto l'indice di gradimento per la sua azione scendere al 50%. In febbraio, poche settimane dopo l'insediamento, la stessa campionatura gli dava un cosiddetto «job approval » del 69%.
Gallup non è da sola. Altre rilevazioni nazionali, dal Pew Center a NBC/Wall Street Journal, hanno segnalato una crescente insoddisfazione degli americani, scontenti di come Obama stia gestendo la vicenda della riforma sanitaria e pieni di dubbi anche sulla sua politica economica, visto che i segnali di stabilizzazione non incidono ancora sulla vita delle persone. L'unica consolazione viene dalla politica estera, dove il gradimento rimane piuttosto alto.
A impressionare di più è però la velocità della discesa, che ha pochissimi precedenti da quando Gallup cominciò a sondare l'opinione degli americani su Harry Truman. Se la tendenza continuasse e il gradimento del presidente scivolasse sotto il 50% prima di novembre, Barack Obama avrebbe registrato il terzo più rapido declino dalla Seconda Guerra Mondiale. Peggio di lui hanno fatto solo Gerald Ford e Bill Clinton. Il primo s'incartò in appena 3 mesi, colpa il perdono accordato al predecessore Richard Nixon. Al secondo ne furono sufficienti 4 pieni di pasticci, tra la fallita riforma sanitaria, l'ipocrisia dei gay nell' esercito e un taglio di capelli da migliaia di dollari, con l'Air Force One fermo sulla pista in attesa che il parrucchiere finisse l'opera.
Ma è il resto del racconto a dover mettere in allarme un presidente, che in luglio convocò un gruppo di storici in gran segreto alla Casa Bianca, preoccupato dall'ipotesi che la guerra in Afghanistan diventi per lui ciò che la guerra del Vietnam fu per Lyndon Johnson. Ci vollero infatti 5 anni a Dwight Eisenhower per scendere sotto la barra del 50%, ne occorsero 3 ai Bush padre e figlio.
Lo stesso Johnson e perfino Nixon si godettero per oltre 2 anni l'approvazione di più di metà degli americani. Meno bene Ronald Reagan: toccò la soglia di rischio dopo 10 mesi, complice un'economia che ci mise un po' prima di reagire bene alla supply side economics , l'economia dell'offerta che fu la cifra della sua rivoluzione.
Ma come ricorda anche Gallup, ogni cattiva notizia ha il suo risvolto positivo. E perfino un crollo vertiginoso nei primi mesi delle presidenza non è irreversibile. Anzi. A dimostrarlo sono proprio Reagan e Clinton, entrambi protagonisti di una lunga rimonta che li portò a facili rielezioni, rispettivamente nel 1984 e nel 1996.
Alla Casa Bianca, a parte il wee wee obamiano, la consegna è calma e gesso: «La popolarità - ha spiegato il portavoce Bill Burton - non è qualcosa da mettere su uno scaffale e ammirare. E' facile rimanere popolari a Washington se non fai nulla». Come dire che il capitale politico di un presidente va speso. Il problema di Obama è che finora, si veda lo stallo sulla riforma sanitaria, sta spendendo in anticipo senza grandi risultati. E come avverte l'adagio, chi paga avanti rischia di mangiar pesce marcio.
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