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La Repubblica Rassegna Stampa
28.08.2009 Il villaggio di Deir Abu Meshal ha fatto della produzione di kippah un simbolo del proprio riscatto economico
Cronaca di Fabio Scuto

Testata: La Repubblica
Data: 28 agosto 2009
Pagina: 49
Autore: Fabio Scuto
Titolo: «Il copricapo degli ebrei made in Palestina»

Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/08/2009, a pag. 49, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Il copricapo degli ebrei made in Palestina ".

" Le donne di Deir Abu Meshal non provano nessun imbarazzo a produrre dei copricapo destinati a coloro che occupano la Cisgiordania o ai settler estremisti delle vicine colonie. «Gli affari sono affari, Mister», dice secca la signora Barghouti. «Senza questo business, la gente qui sarebbe davvero povera» ". Il buon senso delle sarte arabe supera per intelligenza la stupidità della domanda dell'intervistatore.
Ecco l'articolo:

Il capo d´abbigliamento più diffuso tra gli ebrei in tutto il mondo è la kippah. Un copricapo a forma di papalina che gli uomini ebrei indossano nelle occasioni pubbliche e rituali e obbligatoriamente nella sinagoga: è il modo con cui si indica il proprio rispetto e il timore nei confronti di Dio. E´ solitamente di stoffa a tinta unita, ma può essere anche ricamata a mano, ai ferri o all´uncinetto, con inserti di disegni o parole. Intere vetrine nei negozi di Gerusalemme sono dedicate alle kippah. Ciò che è molto singolare è che a creare migliaia di questi colorati copricapo sono centinaia di donne palestinesi nel villaggio di Deir Abu Meshal, che hanno fatto di questa produzione un simbolo del riscatto economico di questa comunità.
Praticamente in ogni casa di questo borgo di tremila anime flagellato da un sole impietoso a metà strada fra Gerusalemme e Ramallah, si producono kippah. Le donne si siedono sulla porta di casa e mentre fanno due chiacchiere tirano fuori i gomitoli di lana o di cotone. «Facciamo a maglia i qors (il nome arabo della kippah, che tradotto vuol dire letteralmente disco) e allo stesso tempo chiacchieriamo, come fanno le donne in tutti i paesi del mondo sull´uscio di casa» dice Umm Ali. «Ci vediamo, stiamo insieme e facciamo qualche soldo», conferma senza nessuna animosità questa madre di tre figli con il marito che è parte integrante di quel cinquanta per cento di palestinesi disoccupati in Cisgiordania.
Per gli uomini c´è poco lavoro e l´economia di Deir Abu Meshal è tutta sulle spalle delle donne. «Le donne palestinesi non sanno stare con le mani in mano, se si siedono prendono in mano o i ferri o l´uncinetto, e allora abbiamo deciso di usare queste nostre abitudini per fare un po´ di denaro», scherza Ruqaya Barghouti. Ma l´idea si è fatta strada rapidamente. E´ stato raggiunto un accordo - non semplice e certamente non rapido - con sei commerciati all´ingrosso israeliani che distribuiscono la lana, il cotone e i modelli delle kippah, non solo a Deir Abu Meshal, ma anche in altri dieci piccoli villaggi qui intorno. Le donne del villaggio tessono una media di cinque kippah al giorno, che gli vengono pagate circa 12 shekel, cioè 3 dollari Usa ciascuna. Finemente confezionate e di rara bellezza per l´accoppiamento dei colori, queste kippah sono destinate ai negozi di lusso della Città Santa ma buona parte traversano l´Oceano per essere indossate dagli ebrei americani nelle sinagoghe di New York o Chicago.
«Quest´affare delle kippah fa sì che nel mio negozio c´è sempre un gran via vai», dice soddisfatta Riyad Ata sulla porta della sua drogheria. Il suo negozio funziona anche da punto di raccolta per i manufatti intessuti da più di cento donne della zona e la raccolta conseguente del denaro. Dal suo punto di vista non è male. Con il denaro incassato le donne - il vero motore della famiglia palestinese - fanno direttamente la spesa da lei. Gli shekel guadagnati con le kippah si trasformano in uova, farina, latte, formaggio, scarpe, zainetti, quaderni per la scuola.
Le donne di Deir Abu Meshal non provano nessun imbarazzo a produrre dei copricapo destinati a coloro che occupano la Cisgiordania o ai settler estremisti delle vicine colonie. «Gli affari sono affari, Mister», dice secca la signora Barghouti». «Senza questo business, la gente qui sarebbe davvero povera», conferma Nema Khamis - cinquant´anni - mentre con i ferri va avanti a una velocità impressionante inseguita nel ritmo dalle quattro figlie e dalla nuora.
Un tempo anche le kefieh - che dall´inizio del Novecento sono state il simbolo dell´orgoglio arabo sugli occupanti Ottomani che portavano il fez rosso - si tessevano sui telai di legno e corda nei villaggi palestinesi, manifatture importanti ai tempi degli inglesi erano a Hebron e Jenin. Negli anni Settanta poi Yasser Arafat fece diventare il copricapo bianco a quadretti neri il simbolo nazionale palestinese. Oggi le kefieh non si lavorano più in Palestina, arrivano già confezionate dalla Cina, con materiali di dubbia qualità e a bassissimo costo. Mentre le kippah ebraiche le tessono gli arabi. Il mondo cambia rapidamente, la globalizzazione ha divorato tutto e annullato le differenze tra oppressi e oppressori; chi riesce a guardare oltre affrontando la realtà, sopravvive e, chissà, dimostra al resto dell´umanità che un´altra strada è possibile, o almeno percorribile, come quella intrapresa dalle donne di Deir Abu Meshal.

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