Riportiamo da PANORAMA n°35 del 27/08/2009, a pag. 100, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Operazione immagine per al Fatah ".
Marwan Barghouti
Dopo la fine della conferenza di Al Fatah il mondo fa di tutto per scorgervi dei segni positivi, dei bagliori di pace. Rinnovamento e democrazia, belle parole indice di una svolta positiva, hanno caratterizzato molti commenti. L'accento è stato posto su come nel comitato centrale, formato da 18 membri eletti più quattro delegati dal presidente palestinese Abu Mazen, e nel consiglio rivoluzionario, costituito da 120 rappresentanti, sia ampiamente rappresentata la «nuova generazione». Che dovrebbe porre fine allo strapotere della corrotta stagione di Yasser Arafat, restaurando la fiducia dei palestinesi. Si è inoltre sottolineato come i nuovi dirigenti siano stati eletti democraticamente dai 2.200 delegati. Ambedue questi punti sono ampiamente discutibili, anzi, l'impressione che si riporta dai risultati della prima convention in 20 anni è tutt'altra. Prima di tutto la leadership di AbuMazen è stata riconfermata senza che alcun autentico oppositore si sia fatto avanti, nella più pura tradizione arafattiana. In secondo luogo le elezioni sono state talmente contestate da indurre a immediate dimissioni alcuni membri delusi e a fare introdurre, in tutta fretta, un seggio in più per Tajeb Abdel Rahim, leader della prima ora, molto vicino ad Abu Mazen. Inoltre l'assenza dei 400 delegati di Gaza ha privato la conferenza di un contributo significativo. Questi membri di Al Fatah chiedono di rifare le elezioni, sostenendo che la scelta dei delegati sia avvenuta, in alcuni casi, attraverso una cooptazione caotica. Il fatto che il comitato centrale induda «giovani» (cinquantenni) non significa che Al Fatah intenda impegnarsi su una linea più pacifista, ma solo che tenta di rinnovare la sua immagine di fronte a un elettorato sempre più affascinato da Hamas. È semmai negativa l'esclusione dell'unico leader storico che avesse una posizione a favore dell'ipotesi «due stati per due popoli»: Abu Ala, uno dei padri del processo di Oslo, l'uomo che ha sempre cercato di calmare Arafat. Per il resto le «facce nuove» del comitato centrale sono in realtà vecchie glorie della lotta armata e del terrorismo suicida. Il caso più eclatante è Marwan Barghouti. Il fondatore dei Tanzim, che inaugurarono il terrorismo della seconda intifada (in accordo segreto con Arafat), è in un carcere israeliano, condannato a cinque ergastoli. Questo non ha impedito e forse ha esaltato il suo successo all'assemblea di Al Fatah che lo ha eletto nel gruppo dirigente, fra gli applausi. Ne è nato un dibattito infuocato nel mondo politico israeliano: è meglio rilasciarlo per fare di lui un leader in grado di interloquire con maggior forza di Abu Mazen, oppure questa opzione favorirebbe la ripresa della lotta armata, nell'intento dei palestinesi di recuperare consensi ai danni di Hamas? Di certo c'è soltanto che la liberazione creerebbe molti problemi ad Abu Mazen. Dalla conferenza emerge una linea contraria ai colloqui. Al Fatah afferma che non riprenderà a parlare con Israele se non a fronte di uno sgombero completo degli ebrei da Gerusalemme, che è come dire mai. Promette, contro ogni accordo precedente, il ritorno dei profughi. Proclama la legittimità della lotta armata. Adotta come milizia ufficiale le Brigate dei martiri di Al Aqsa, che hanno rivendicato dozzine di attentati suicidi. Infine non riconosce l'esistenza dello stato d'Israele, accettato dall'Autonomia palestinese in base all'accordo di Oslo. Abu Mazen, che più di ogni cosa teme la maledizione estremista di Hamas, è soddisfatto per aver portato a termine la conferenza rinnovando il gruppo dirigente, ma il prezzo che ha dovuto pagare è l'estremismo.
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