Introduzione a Leo Strauss Carlo Altini
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Prima doveva venire a capo di quell’osso duro di Spinoza e poi sarebbe tornato. Vale a dire che avrebbe potuto far ritorno all’ebraismo ortodosso, alla pace della tradizione, come se nulla fosse successo. Come se non ci fosse stata la modernità, né la febbre del pessimismo. La riappacificazione con l’ortodossia “sarebbe stata possibile solo se Spinoza avesse avuto torto da ogni punto di vista”. Giovane di belle speranze, appena arruolato dall’Accademia per la Scienza del Giudaismo di Berlino, Leo Strauss non si fece intimorire dalla statura intellettuale del grande eretico di Amsterdam. Negli anni venti del Novecento, l’affaire Spinoza era particolarmente sentito, e per molti ebrei tedeschi l’olandese era diventato quasi un eroe, un modello di libertà di pensiero, un filosofo del progresso giudaico. Contro questa rivalutazione si era però levata la voce convinta di Hermann Cohen, che considerava Spinoza un calunniatore del popolo ebraico. E fu proprio per superare le tesi di Cohen che Strauss compose il suo primo grande lavoro, il libro sul “Trattato teologico-politico”. Ma se non era difficile dimostrare che Cohen aveva frainteso le posizioni spinoziane, ben più avventuroso era il percorso infuocato nella critica biblica del Trattato. Secondo Strauss, Spinoza, nonostante tutto, aveva fallito, perché “la vera confutazione dell’ortodossia richiederebbe la prova che il mondo e la vita umana siano perfettamente intelligibili senza ricorrere all’ipotesi di un Dio misterioso”. Era il 1930 e il Dio misterioso che Spinoza non aveva saputo togliere di mezzo sembrava, almeno in Germania, sul punto di nascondersi sempre di più. Strauss emigrò appena in tempo, e trascorse gli anni del nazismo in Inghilterra, faticando non poco per sbarcare il lunario. Solo nel 1949 venne la chiamata alla prestigiosa cattedra di Chicago, dove il filosofo sarebbe rimasto per tutto il resto della sua carriera. Scholem e Buber gli offrirono inutilmente un insegnamento all’Università ebraica di Gerusalemme. Per lui, ebreo che vestiva la diaspora come una divisa intellettuale, il nuovo Stato d’Israele non poteva essere dimora stabile. Nella sua “Introduzione a Leo Strauss” Carlo Altini ci mostra l’indispensabile funzione dello straniamento per capire questo pensatore dalla lingua tagliente. Straniamento biografico dal paese di provenienza, la Germania weimariana a cui pure Strauss restò legatissimo per cultura, e straniamento del filosofo, che sa di essere sempre in qualche modo un ospite scomodo. Per lui la filosofia cercava di districare la verità dal groviglio delle opinioni, e per questo provocava e scandalizzava la polis, la società civile. “Nelle cose politiche è saggia regola non disturbare i cani che dormono – scriveva nel 1968 – la filosofia si regge o cade per la sua intransigente noncuranza di questa regola”. Estremista del pensiero e conservatore in politica : a Strauss è stato attribuito, a torto o a ragione, un influsso determinante sulla destra americana, fino ai fasti e nefasti dei neocon. Ma sarebbe un errore considerarlo semplicemente un avversario della modernità, prigioniero della nostalgia. Nonostante avesse rigettato Spinoza, Strauss non tornò mai e restò un filosofo in senso antico, un amante della virtù “che non ritrova nelle opere degli uomini ma solo nella conoscenza divinatoria”, nella potenza eucaristica nascosta nel linguaggio.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore