L’immobilismo nel Medio Oriente è solo apparente, come è solo apparente il nervoso agitarsi di tutti. In realtà, sotto la superficie di queste apparenze esiste un lavorio diplomatico e strategico che non conosce soste, ma che è strattonato nelle più diverse direzioni da influenze esterne (Iran, Stati Uniti, ONU, Unione Europea e chi più ne ha più ne metta) e da esigenze di politica interna (destra e sinistra in Israele, Hamas e Fatah sempre in cruenta competizione, i timori del fondamentalismo islamico in paesi come l’Egitto, la pesante presenza siriana ed iraniana nella politica libanese).
In questo quadro si inseriscono, come elementi di dissonanza e forse segnali in codice, alcuni eventi degli ultimissimi giorni.
Lo scorso 21 luglio Al Jazeera ha trasmesso un’intervista ad alcuni esponenti del gruppo islamista libanese Hizb-al-Tahrir; Salah Al-Din, dell’ufficio stampa di questa organizzazione, ha affermato - nel contesto di una esaltazione del Jihad come strategia d’attacco contro l’occidente e strumento di penetrazione dell’Islam – che “Noi dobbiamo parlare dell’apice dell’Islam, il Jihad per la gloria di Allah. Da quando il Jihad, come altri precetti della sharia, è stato distorto e pervertito...e da quando la nazione (l’Islam) ha perso il vero significato del Jihad, nella mente di molti di noi il Jihad è divenuto il sinonimo di resistenza, condotta da un gruppo di giovani musulmani con alcune capacità – il Jihad di una nazione forte di 1 miliardo e mezzo di persone è stato ridotto all’uccisione di un americano in Iraq, un inglese in Afghanistan, un ebreo (!) in Palestina (!), o un russo in Cecenia...La nostra nazione ha dimenticato che una sincera celebrazione sarebbe possibile solo con la conquista delle capitali del mondo da parte del messaggio dell’Islam, allo scopo di salvare l’umanità facendo uscire la gente dall’oscurità e dalla tirannia del capitalismo per vedere la luce e la giustizia dell’Islam....”.
Più esplicito nel denunciare la condotta dei governi arabi nei confronti del problema della pace con Israele è il redattore di Al-Hayat e vice segretario generale dell’emittente Al-Arabiya, Daoud Al-Shiryan.
Lo scorso 15 luglio egli ha scritto, nel primo di una serie di articoli sul tema, che “il problema della risistemazione ( per meglio comprendere il termine usato “resettlement” potremmo tradurlo con assorbimento) dei profughi ha cominciato a preoccupare i paesi arabi, che tengono i palestinesi in deprimenti campi di prigionia noti come campi profughi... Il problema dei profughi è diventato preminente in Siria, Libano e Giordania, sia nell’ambito della politica che nei media...Opporsi all’assorbimento dei profughi non è diverso dall’opporsi alla pace. Non è altro che uno slogan irrealistico. Gli arabi hanno accettato la pace benché siano consapevoli che non vi potrà essere pace senza una risistemazione dei profughi. ...ma essi considerano il tema dei profughi come un punto controverso, mentre è un punto centrale ed un tema-chiave nel processo di pace. Il timore di essere accusati di rinunciare agli slogan nazionalisti che chiedono lotta, resistenza e la volontà di gettare a mare Israele...sono divenuti tutti un ostacolo ad un approccio realistico ed onesto a questo argomento...Gli arabi che obiettano al piano di risistemazione dei profughi affermano di essere motivati dalla loro devozione zelante al Diritto al Ritorno (cioè alla richiesta di far tornare tutti i profughi palestinesi sparsi nel mondo alle loro case perdute 60 anni or sono).Ma essi non hanno mosso un dito per tenere in vita questo diritto nella consapevolezza dei palestinesi...un profugo palestinese ora sogna di esmigrare in America, Europa,Canada, Australia per sfuggire all’inferno dei campi profughi, che hanno avuto un ruolo nell’uccidere in lui il desiderio di vivere...Essi (i paesi arabi) devono dare la possibilità ai palestinesi di lavorare, mandare i figli a scuola, vivere senza limitazioni...”.
Cinque giorni dopo ha scritto che “...questi paesi (arabi) devono smetterla di trattare i palestinesi come una piaga per poter usare slogan divenuti vuote enunciazioni...Noi dobbiamo rompere l’isolamento dei palestinesi in Libano, Siria e Giordania...”.
Dulcis in fundo, anche per ragioni cronologiche: il 13 agosto Yousef Rizka, uno dei principali consiglieri del leader di Hamas Ismail Haniyeh, ha dichiarato all’agenzia cinese Xinhua che Hamas valuterà con interesse ed attenzione le proposte di pace che il presidente Obama sta per enunciare; esiste una disponibilità di Hamas ad accettare il principio dei due stati, Israele e Palestina, a certe condizioni tra le quali lo status di capitale palestinese per Gerusalemme sarebbe ineludibile.In cambio Hamas accetterebbe anche una tregua militare a lungo termine con Israele.
Risulta evidente anche da queste parziali traduzioni fornite da MEMRI che in posti diversissimi fra loro del mondo arabo vi sono alcuni personaggi della politica, della cultura e perfino del jihadismo che pronunciano parole apparentemente ragionevoli e “moderate” (per quanto possano esserlo, ma anche la moderazione è un concetto relativo...); ma essi in genere le inquadrano in un contesto che moderato e ragionevole non è, con il solo accorgimento di lasciare questa parte del loro pensiero in forma sfumata, poco evidente o come per Hamas sottintesa. Ottimisticamente, possiamo sperare che questi timidi accenni siano dei semi destinati a germogliare.