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Il Foglio Rassegna Stampa
13.08.2009 Così vivono gli avamposti di Israele
La seconda e ultima parte del reportage di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 13 agosto 2009
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «I trecentomila della Bibbia»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/08/2009, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " I trecentomila della Bibbia ".
Questa è la seconda e ultima parte del reportage di Giulio Meotti. La prima è stata pubblicata dal FOGLIO e riportata nella rassegna di IC dell'8/08/2009.

 Amona

Amona è dove è iniziato tutto tre anni fa. La polizia israeliana arrivò all’alba per evacuare l’insediamento. Seimila tra soldati e poliziotti contro altrettanti coloni irriducibili. “Ci sarà sempre guerra per la Giudea e la Samaria”, proclamavano i rabbini. Dopo Amona, la “gioventù delle colline” è diventata il principale nodo sugli insediamenti ebraici nei territori conquistati dopo il 1967. Si tratta di comunità in cui abitano trecentomila israeliani forti dell’ideologia della terra e del mandato divino di presidiare i luoghi menzionati dalla Bibbia. Migliaia di giovani vivono in cima alle colline con un generatore elettrico, si portano dietro scaffali di libri sulla Torah ma niente acqua corrente, spesso dormono in grotte e case di pietra, quasi sempre in caravan caldissimi d’estate e freddi d’inverno. E’ così che negli ultimi anni le colonie ebraiche si sono estese. Spesso finisce che anche lì è Israele. Ne esistono un centinaio di questi avamposti. L’esercito ne ha appena sgomberati tre. Questi avamposti sono il più grande problema tra il primo ministro Netanyahu e l’Amministrazione Obama. Amona però è ancora lì, su un colle brullo a pochi metri da Ofra, uno dei più grandi insediamenti. Parliamo con la famiglia Greenberg, Eli e Chana, che hanno ricostruito dopo l’evacuazione. Nella Bibbia, spiega il marito, Abramo inizia il viaggio lasciando Ur. Essere ebreo per lui significa “lasciare la città”. “La terra d’Israele sta aspettando a braccia aperte il ritorno dei propri figli”. Secondo Eli la costa israeliana è stata sempre inospitale per gli ebrei. “Terra di filistei, fenici, ogni sorta di greco”. Ad Amona i coloni non ci sono arrivati contro la volontà del governo. Secondo il rapporto Sasson, il grande manuale sugli outpost, il ministero delle Infrastrutture ha speso mezzo milione di dollari ad Amona. La strada che collega l’avamposto a Ofra è stata pavimentata da una compagnia di infrastrutture di Zeev Hever, uno degli amici più intimi dell’ex premier Ariel Sharon. Chana Greenberg è insegnante, madre di sei bambini e felice nella sua roulotte. “E’ il ritorno alla terra promessa, questa è la regione da cui sono passati tutti i nostri padri”, ci dice Chana. “Era come se la terra ci chiedesse di tornare qui, era abbandonata e noi eravamo in esilio. Il nome Amona deriva dalla Bibbia. Ho perso moltissimi membri della famiglia nell’Olocausto. Sento fortissimo il legame fra quanto accadde in Europa e il nostro sionismo. Qui c’è un’intera generazione che non ha mai conosciuto i nonni. E’ questo che mi dà la forza di restare qui nonostante la minaccia di attacchi terroristici. E’ sempre stato così, non è nulla di nuovo per gli ebrei”. L’acqua finisce prestissimo a Havat Gilad, uno dei più remoti insediamenti. Noto anche per una piccola ma prestigiosa yeshiva chassidica. Itay Zar dice che la comunità è una “vendetta vivente” costruita dopo l’uccisione di suo fratello, Gilad. All’ingresso c’è una grande stella di David. Tutti si dicono fieri di aver costruito le case da soli, mentre nei grandi insediamenti i genitori hanno pagato la manodopera palestinese. Un filantropo americano avrebbe contribuito alle spese di Havat Gilad con trentamila dollari. Havat Gilad fu evacuata una prima volta nel 2003 per ordine di Ariel Sharon e poi venne ricostruita. “Nella Bibbia c’è scritto che saremmo tornati in questa terra”, ci dice Arie Lipo, il leader spirituale del villaggio. “Sono nato il giorno della guerra del Kippur. I miei genitori vengono dalla Francia. Questa è la regione del popolo della Bibbia, dei nostri profeti”. Altro che ostacolo sulla via della pace, dice Lipo. “Questo fa parte della Geulah, la Redenzione. Si tratta di un movimento santo da cui dipende la pace nel mondo. Io sono arrivato da Tel Aviv e lì non è la stessa vita. Era importante essere in contatto con Hashem, con Dio. Conduciamo una vita bellissima, come nella Bibbia, adempiendo alle leggi della Torah. Qui siamo tutti legati alla terra. Stiamo costruendo piccoli paradisi. C’è paura, ma Dio veglia su di noi”. La famiglia di Netanel Budnar viene da New York. Lui è sposato ma ancora senza figli: “Siamo fieri di essere qui,nella terra che ci ha dato Dio. Vogliamo che la profezia si avveri. I suoi figli sarebbero dovuti tornare in questa terra. Noi sentiamo di farne parte. Non abbiamo paura, crediamo in Dio. Io non credo che l’esercito possa proteggerci, sappiamo che quello che facciamo è la cosa giusta. Abbiamo una sinagoga. I miei amici costruiscono case in altre comunità. Abbiamo una fattoria a Havat Gilad per quello che ci serve”. La famiglia di Netanel Valis è una delle più antiche a Gerusalemme, israeliani da undici generazioni. “Qui a Havat Gilad viviamo una vita liberissima, crediamo nella Torah e nelle leggi che Dio ci ha dato”, ci dice Valis. “Ci rispettiamo l’un l’altro. Ho una figlia, grazie a Dio. La mia è una generazione dedita alla Bibbia. La nazione d’Israele e la sua terra sono il nostro obiettivo a cui abbiamo dedicato la vita. Nessun politico o personaggio famoso può scalfire la nostra fede. I palestinesi ci rispettano perché siamo devoti a una causa. Non abbiamo paura. Qui si conduce una vita ebraica semplicissima. Mi sveglio ogni giorno alle 4 e 30 e studio la Torah fino all’alba. Poi al lavoro”. Uno degli ultimi arrivati a Havat Gilad è l’avvocato Yehuda Shimon: “La comunità è legata a Dio, noi diciamo che Dio è il re”, ci racconta Yehuda. “Non il governo, non i soldati, non la polizia, è Dio il re, proprio come c’è scritto nel dollaro: ‘In God we trust’. Ci svegliamo, preghiamo, andiamo al lavoro, torniamo a casa, i bambini vanno a scuola. Il problema non sono i palestinesi, ma la nostra polizia. Non temiamo alcun male. E anche se qualcosa di brutto dovesse accadere, sarebbe la volontà di Dio e non possiamo farci nulla. La mia famiglia è qui da oltre dieci generazioni. Ho genitori che vengono dalla Polonia e dallo Yemen, io prima di qui vivevo a Gerusalemme e sono arrivato soltanto due mesi fa, perché sentivo che la mia anima doveva essere più vicina a Dio. Oggi sono molto più felice”. Secondo Yehuda i giovani israeliani hanno dimenticato perché esiste Israele. “La mia generazione è molto meno legata alla terra dei nostri genitori, abbiamo dimenticato perché siamo in Israele, perché Israele è la nostra terra. La Samaria è parte della terra d’Israele, qui dietro c’è un antico cimitero giudaico. E’ una vita difficile, ho sei bambini e la mia famiglia vive nelle roulotte con due camere. La cucina è parte del salotto. Non abbiamo elettricità né acqua, se non andiamo a prenderla ogni giorno. Ogni famiglia contribuisce alle spese. Non temo di essere cacciato perché mi fido di Dio. Quando viene ucciso qualcuno, come Gilad Zar, nostra reazione immediata è voler creare qualcosa in suo nome. E’ così che ricordiamo la persona uccisa. Se non costruisci niente, il tuo spirito muore. Un mio amico è stato ucciso nell’esercito e vedo la sua famiglia, il loro spirito, che muore, di giorno in giorno. Havat Gilad è viva. Ogni giorno costruiamo qualcosa. Le case, la comunità, il legame con Dio, se costruisci sei vivo”. Moshe Goldsmith è il sindaco di una delle più antiche comunità, Itamar: “Questi giovani hanno ideali fortissimi, sanno che la Torah ha ordinato al popolo ebraico di insediarsi nella terra d’Israele. Mark Twain venne qui e se ne innamorò. I giovani si stanno sacrificando per questo ideale, hanno lasciato le città per adempiere a questa missione”. C’è anche chi, come Ze’ev Orenstein, vive in un grande conglomerato di coloni, Maaleh Adumim, e invidia i coetanei delle colline. “Sono nato a New York e quando scelsi di venire qui non c’era differenza fra una città o un’altra. Dovevo fare la mia parte, sapevo che Dio voleva questo da noi ebrei. Vivere qui e fare parte del suo disegno. Ammiro chi va a vivere nel deserto e in posti remoti, sono persone ammirevoli”. Uno dei primi a trasferirsi sulle montagne, trent’anni fa, è stato David Rubin, già sindaco dell’insediamento di Shiloh. David è scampato a un attentato terroristico con il figlio e oggi sono vivi per miracolo. “Vogliamo che i nostri figli diventino cittadini moderni d’Israele”, ci dice David. “A Shiloh non è un cliché dire che i bambini sono il futuro. Sono stati educati all’ottimismo, a forti valori familiari, alla fede in Dio e che il nostro Dio ci ha dato il diritto a questa terra. La differenza fra chi vive qui e chi a Tel Aviv sta tutta nella Bibbia, noi non siamo materialisti narcisisti. Siamo parte di una relazione con il resto del mondo proprio grazie alla Bibbia. Siamo arrivati qui come pionieri, c’erano giovani coppie e single determinati dopo il 1967 a ristabilire la prima capitale della nazione ebraica. Shiloh. Il governo israeliano aveva paura di quello che avrebbe detto il mondo. Nella mia prima visita in Israele incontrai dei cugini; quando dissi loro che stavo prendendo lezioni di giudaismo, risposero: ‘In Israele non c’è bisogno di essere religiosi’. Ero un single di trentacinque anni, all’inizio vivevo nel dormitorio della yeshiva di Gerusalemme. Poi lessi una brochure: ‘Prima di Gerusalemme, c’era Shiloh’. Andai a vivere in un caravan nel cuore della terra che Dio aveva promesso ad Abramo. Così è nata Shiloh”. Così nascono oggi gli avamposti. A Shiloh gli autobus per Gerusalemme hanno tutti i vetri antiproiettili. “Cinque mesi fa un mio amico è stato preso a fucilate. La battaglia per la terra d’Israele è il microcosmo della battaglia del mondo libero contro il terrorismo islamico. La missione di Israele come luce spirituale fra le nazioni non può essere compiuta come minoranza oppressa. L’ebreo come minoranza perseguitata per gli antisemiti era la prova della non esistenza di Dio, quindi la dissacrazione del nome di Dio. Chi venne a vivere a Shiloh non importava che fosse un ventenne o una donna incinta, senza mezzi di trasporto. Loro sapevano chi erano, perché erano là e chi aveva dato loro il diritto di viverci. Un anziano immigrato dalla Russia, un ex ufficiale dell’Armata rossa di nome Zechariah Begun, faceva il volontario nei giardini delle famiglie. Quando gli offrirono del denaro, quest’ottantenne rispose: ‘Come posso prendere soldi per piantare alberi nella terra d’Israele?’”. Si trova di tutto nei piccoli avamposti. Alle marce sulle colline partecipa anche il matematico e premio Nobel per l’economia, Robert Aumann, membro del movimento “Professors for a strong Israel”. C’è chi, come Yehuda HaKohen, si definisce “liberal” e ha giurato guerra alle “grandi corporation dei media che si muovono come imperialisti in medio oriente”. “E’ importante creare comunità mentre la comunità internazionale vuole bloccare la crescita ebraica in Israele. Sono fiero del sionismo, la liberazione del popolo ebraico. Siamo stati esiliati da qui da imperi come quello Romano”. Ran Segal è un israeliano dall’inglese stentato, ha una splendida vigna in un avamposto nel cuore della Samaria biblica. La sua collina è nota come Givat Arnon, dal nome di un colono ucciso mentre faceva la guardia. Ran è un matematico, ma vive soprattutto di quello che gli dà la terra. Il suo villaggio non è abitato soltanto da religiosi. Come l’ateo Shmuel Barak, scienziato che studia energia solare al Weizmann Institute. “Otto anni fa sono arrivato qui”, ci dice Ran Segal. “E’ un posto bellissimo, la gente si rispetta, nelle città della costa non è più così. Poi ci sono ragioni ideologiche, questa è la terra d’Israele. Qui Abramo ha mosso i primi passi dopo l’Egitto”. Non lontano abita Gamliel Shilo, è arrivato in Israele vent’anni fa lasciando il selvaggio Perù. Gamliel prima di convertirsi si chiamava Cabrera. Quasi tutti i duecento peruviani con la pelle ambrata e gli occhi allungati che hanno abbracciato il giudaismo vivono oggi nelle colonie. “Sono venuto in Samaria perché questa è la terra dei nostri antenati, come ebreo volevo tornare nel luogo in cui Dio ci ha dato il mandato”, ci dice Gamliel. “E’ ciò che siamo come ebrei. Giudaismo significa essere in grado di vivere in questo mondo e combinare sacro e profano, ogni giorno. Un ebreo in Samaria è parte della profezia del Messia Redentore che ritorna a Sion. Vivremo qui come una luce fra le nazioni, un esempio per il mondo”. Maoz Esther, non lontano da Ramallah, è il primo avamposto preso di mira da Netanyahu da quando è salito al potere. E’ già stato evacuato tre volte. E per tre volte ricostruito. L’ultima, appena due giorni fa. Il portavoce della comunità, Avraham Sandack, è arrivato su questa altura direttamente da una delle colonie smantellate a Gaza da Ariel Sharon. Studia per diventare rabbino e intanto fa le pulizie in una sinagoga. “Il nostro spirito è lo stesso dei nostri padri”, ci dice Avraham. “Due anni fa era Hanukkah, siamo partiti da un insediamento vicino e abbiamo costruito una casa di pietra. Una mamma con tre figlie piccole si è trasferita da sola per due mesi sulla collina. Non avevano elettricità né acqua. Ma sapevano di appartenere alla terra d’Israele. Nella Bibbia si parla di questa terra per la profezia del regno di Dio. Ci dà forza per andare avanti. Ieri abbiamo iniziato a ricostruire quello che l’esercito ha distrutto. Qui riusciamo a essere equi con la nostra anima. Qui c’è qualcosa di metafisico. Dio non è in cielo o da qualche parte. Dio è parte di noi, è in tutta la nostra vita”. Lo dice anche Chana Greenberg da Amona. “Quando guardo fuori dalla finestra, oltre la Giordania, immagino gli ebrei che tornano ad abitare nella propria terra. Siamo qui con Dio, nessuno può separarci. Siamo Lui e noi”.

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