Il Principe del fuoco Filip David
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Va male per i razionalisti, ancor peggio per i miscredenti. Appena si azzardano a sollevare dubbi sui poteri dei rabbi, o peggio si fanno beffe di preghiere e talismani, basta una mezza parola, o un’occhiata di fuoco e sono perduti. La loro vita si trasforma in un’inutile lotta contro la malasorte, mentre lui, il maestro offeso, li perseguita implacabile con la sua maledizione. Ne “Il principe del fuoco” di Filip David i mistici la fanno da padroni. Scrutano nell’abisso delle anime e nell’oscurità della materia, e sanno piegare gli elementi al loro volere. Rabbi itineranti, viandanti dal passato indecifrabile, per metà asceti e per metà maghi, i protagonisti di queste novelle stralunate non parlano volentieri. Preferiscono sedere in silenzio, accendersi vecchie pipe riempite con foglie secche di granturco, e meditare. Se però si lasciano andare ai ricordi, intessono lunghe storie affollate di demoni, spiriti della foresta, ebrei peccatori e angeli perdigiorno. David è autore serbo di origine ebraica, con un passato di militanza anti-Milosevic. La sua prosa non tradisce però nessun impegno politico. Anzi, il tono e le immagini sono volutamente antiquati, e riprendono le cadenze del racconto nero tra Ottocento e Novecento. Se non ha la genialità di Gustav Meyrink – il decano dell’esoterismo letterario mitteleuropeo – David ha però la cocciuta pazienza del trovarobe. Amuleti, notti senza luna, labirinti nelle viscere delle montagne e, naturalmente, un golem dallo sguardo velenoso, ogni risorsa è buona per spaventare a morte il lettore. Peccato che di tanto in tanto ci si imbatta in qualche strafalcione. Per esempio quando il rabbi di turno cerca di produrre un golem sulla base del Sefer Yetzirah. A detta di David, la citazione letterale dal libro, grande capolavoro della mistica giudaica d’età tardo antica, recita: “Ventisei suoni e lettere sono la base di tutte le cose”. Il mago del racconto la legge e la rilegge, e poi combina le lettere in sequenze misteriose, per dare vita a una zolla di terra. Il risultato non è un granchè: l’uomo di fango gli riesce sbilenco, e di modi davvero zotici. Imperizia dell’operatore magico? Probabilmente. Ma anche sbadataggine dello scrittore. Le lettere ebraiche, secondo il vero Sefer Yetzirah, e anche secondo qualsiasi grammatica, sono ventidue, e non ventisei. Con quattro lettere fuori posto, neanche un mago provetto avrebbe potuto far di meglio.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore